Imparare a scrivere di nuovo. Dal punto esatto in cui si era arrivati. Un'altra volta ancora. Ma ci si nasconde nell'illusione. Il centro delle cose non è mai fermo e noi ci spostiamo sempre più in là da esso. Distanti.
Riconoscere una lingua antica, forse ancestrale e scoprire che non ne sono più rimaste le parole. Solo un'eco di una impalcatura invisibile che sottrae al silenzio il grido disperato delle nostre gole.
Anima contraffatta è la tua. Di cartapesta. Destinata ad un'autocombustione forzata dinnanzi alla fiammella della morte.
Abito tra i morti dove continuamente raggiungo i limiti del mio pensiero
Dalla verità scaturisce il tempo che ogni volta per ritrovarsi è costretto a rinnegare costantemente le sue origini.
Cosa sottoponiamo al tempo e cosa no? (dubbio)
La mia è una solitudine definitiva.
mercoledì 28 dicembre 2011
NEL LUNGO VIAGGIO CHE MI ATTENDE
Ipotesi di dedica. Banale ma a lungo termine:
A Maria. Nel lungo viaggio che l'attende
A Maria. Nel lungo viaggio che l'attende
sabato 10 settembre 2011
DISSOLVENZE
Ricomponiti. La percezione rallenterà fino a sparire. Raggrumi di esistenza in sostanziosa evaporazione. Vai.
sabato 27 agosto 2011
IL TEMPO DEL SOLE
La lamina del tempo ha diviso il sole a metà.
Dall'una mi oriento nell'altra incontro l'approdo
Dall'una mi oriento nell'altra incontro l'approdo
sabato 28 maggio 2011
IL VIAGGIO LONTANO
Quando si scrive è come se ogni volta si tornasse da un viaggio che ci ha portato lontano. Ma l'impeto delle parole in azione compie ogni volta un balzo in avanti rendendo possibile lo spostamento. Ci si muove sempre con l'illusione di raggiungere nessun luogo
venerdì 27 maggio 2011
LUCE
Pacata luce ti addensi nell'aria
crogiolandoti della tua inconsistenza
Invidia è l'umano sentimento che non provi
solo la noia ti rallegra
tra un interstizio e l'altro delle forme
domenica 22 maggio 2011
TRUTH AND WRITING
by Maria Zuppello
The art of writing gives the illusion that truth exists and that you may encounter it.
The art of writing gives the illusion that truth exists and that you may encounter it.
CRONACA DI UN DOLORE
PENSIERI SPARSI
di Maria Zuppello
Afferare gli oggetti come fossero l’ultimo richiamo di vita disponibile. Una tazza di porcellana, un giocattolo antico, un libro. Tracce di un antico viaggio già compiuto con un suo inizio e una sua fine, una mappa indiscussa che non trova più le parole...
Dirimpetto al dolore solo l’essenza può sostenere le radici del vivere. E quando anche la scrittura trova una sua via di fuga resta un vuoto primitivo, senza più anelito di creazione. Allo specchio guardandosi strani pensieri rendono opaca l’aria circostante. Così disarmonici da non sembrare più umani ma concrezioni della materia in cerca di un corpo da coprire. Ma non è protezione quella solo una mera casualità delle circostanze. Invisibile al mondo la mia essenza gli è comunque di ostacolo. Un sasso su cui inciampare rapidamente e da cui con la stessa rapidità riprendersi. Non mi vedono ma esisto e questo è un problema.
Destino d’eccezione con varianti. Pensa questi pensieri mentre le parole si ingarbugliano e cedono alla tentazione dovuta del silenzio. Niente accade perchè tutto avvenga. Niente accade perchè non c’è niente. Niente accade perchè è così che deve essere. E se è così che deve è lecito chiedersi cosa accadrà dopo? O il niente elide anche l’illusione temporale?
Ho sempre professato l’esercizio della responsabilità, in qualsiasi circostanza a qualsiasi prezzo.Ma la casualità dell’esistenza si è presa beffa di me e mi punisce adesso con una quiete nervosa in cui vorrei abbandonarmi solo all’inerzia della coscienza. A forza di voler dirigere il guado ci sto annegando dentro.
Accetta l’inevitabilità di questo movimento. E’ un percorso ma non lo sai, è cambiamento ed evoluzione anche se è un movimento fermo. Sì, esistono i movimenti fermi in cui ogni elemento si congela e nella stasi dell’essere scopre l’eternità delle passioni.
Postivo, negativo, bene e male sono le etichette con cui in realtà prendiamo le distanze del mondo. Da noi stessi e dalla nostra forza creatrice.
E’ nel dolore che contemplo la mia umanità.
Sono condannata a raccontare il mio dolore e a ricevere in risposta la sua eco.la vera lettura delle cose è impossibile, restano solo le interpretazioni che non sono mai innocenti.
Devo passare da un pensiero religioso dell’esistenza che concepisce solo l’assoluto in tutte le sue forme ad un approccio atomista. Ogni cosa è scomposta in se e così via all’infinito. Camminiamo su tanti punti che ci fanno continuamente perdere l’equilibrio.
Alla fine ciò che conta è il sentimento ne sono certa, anche quando il mondo sembra non darmene ostinatamente ragione.
Divorati dall’idea di immortalità avveleniamo il nostro essere mortali. Ogni giorno.
Non si può ammettere l’impossibilità. E’ per questo che soffriamo. Dio si vendica di noi e della nostra finitudine. Per questo non smettiamo di supplicarlo.
Era morto. La morte era dunque arrivata anche per lui. E ora non sarebbe arrivata mai più. Era già lontana.
Ogni parola vale per il suo contrario. Tutto è possibile dunque.
Tengo le parole per dopo. Riempire il mio destino con esse fino a che la direzione si farà avanti
Scrivere non c’entra nulla con l’estetica. E’ il mio messaggio al postino dell’esistenza.
Descrivere ogni singolo dettaglio è un modo per non lasciar andare via l’oggetto
Accettare la letteratura perchè non se ne può fare a meno. Le parole non sono intinte nel sangue ne sono al contrario la negazione, ponti sottili tra un’affermazione e l’altra. E’ il mio tradimento al disgusto quotidiano.
L’arte dello scrivere dà l’illusione che esista una verità e che le si possa andare incontro.
Regredire, regredire fino ad incontrare l’infinito-
Il valore distruttivo delle parole. Le parole distruggono gli oggetti perchè ne prendono il loro posto. E se esistessero solo per poi sparire? Rinviati al mistero primario ci perdiamo sempre.
Dirimpetto al dolore solo l’essenza può sostenere le radici del vivere. E quando anche la scrittura trova una sua via di fuga resta un vuoto primitivo, senza più anelito di creazione. Allo specchio guardandosi strani pensieri rendono opaca l’aria circostante. Così disarmonici da non sembrare più umani ma concrezioni della materia in cerca di un corpo da coprire. Ma non è protezione quella solo una mera casualità delle circostanze. Invisibile al mondo la mia essenza gli è comunque di ostacolo. Un sasso su cui inciampare rapidamente e da cui con la stessa rapidità riprendersi. Non mi vedono ma esisto e questo è un problema.
Destino d’eccezione con varianti. Pensa questi pensieri mentre le parole si ingarbugliano e cedono alla tentazione dovuta del silenzio. Niente accade perchè tutto avvenga. Niente accade perchè non c’è niente. Niente accade perchè è così che deve essere. E se è così che deve è lecito chiedersi cosa accadrà dopo? O il niente elide anche l’illusione temporale?
Ho sempre professato l’esercizio della responsabilità, in qualsiasi circostanza a qualsiasi prezzo.Ma la casualità dell’esistenza si è presa beffa di me e mi punisce adesso con una quiete nervosa in cui vorrei abbandonarmi solo all’inerzia della coscienza. A forza di voler dirigere il guado ci sto annegando dentro.
Accetta l’inevitabilità di questo movimento. E’ un percorso ma non lo sai, è cambiamento ed evoluzione anche se è un movimento fermo. Sì, esistono i movimenti fermi in cui ogni elemento si congela e nella stasi dell’essere scopre l’eternità delle passioni.
Postivo, negativo, bene e male sono le etichette con cui in realtà prendiamo le distanze del mondo. Da noi stessi e dalla nostra forza creatrice.
E’ nel dolore che contemplo la mia umanità.
Sono condannata a raccontare il mio dolore e a ricevere in risposta la sua eco.la vera lettura delle cose è impossibile, restano solo le interpretazioni che non sono mai innocenti.
Devo passare da un pensiero religioso dell’esistenza che concepisce solo l’assoluto in tutte le sue forme ad un approccio atomista. Ogni cosa è scomposta in se e così via all’infinito. Camminiamo su tanti punti che ci fanno continuamente perdere l’equilibrio.
Alla fine ciò che conta è il sentimento ne sono certa, anche quando il mondo sembra non darmene ostinatamente ragione.
Divorati dall’idea di immortalità avveleniamo il nostro essere mortali. Ogni giorno.
Non si può ammettere l’impossibilità. E’ per questo che soffriamo. Dio si vendica di noi e della nostra finitudine. Per questo non smettiamo di supplicarlo.
Era morto. La morte era dunque arrivata anche per lui. E ora non sarebbe arrivata mai più. Era già lontana.
Ogni parola vale per il suo contrario. Tutto è possibile dunque.
Tengo le parole per dopo. Riempire il mio destino con esse fino a che la direzione si farà avanti
Scrivere non c’entra nulla con l’estetica. E’ il mio messaggio al postino dell’esistenza.
Descrivere ogni singolo dettaglio è un modo per non lasciar andare via l’oggetto
Accettare la letteratura perchè non se ne può fare a meno. Le parole non sono intinte nel sangue ne sono al contrario la negazione, ponti sottili tra un’affermazione e l’altra. E’ il mio tradimento al disgusto quotidiano.
L’arte dello scrivere dà l’illusione che esista una verità e che le si possa andare incontro.
Regredire, regredire fino ad incontrare l’infinito-
Il valore distruttivo delle parole. Le parole distruggono gli oggetti perchè ne prendono il loro posto. E se esistessero solo per poi sparire? Rinviati al mistero primario ci perdiamo sempre.
MIO PADRE STA SCRIVENDO UN ROMANZO
Storia di una figlia e di un padre e del cancro che sembra separarli. Si ritroveranno invece attraverso la forza della scrittura.
MIO PADRE STA SCRIVENDO UN ROMANZO
di
Maria Zuppello
A mio padre,
che ha sempre portato il suo remo in spalla.
A mio marito Paolo,
fondamenta della mia esistenza
A Barbara,
divisa dall’oceano, unita dal destino.
A Regina, Pinuccia e Paolo
E al loro talento nel rendere lievi le spine.
Fortuna è una parola priva di significato.
Nulla esiste per caso
Voltaire
E’ il grande romanzo della tua vita e un pò anche il mio. La penna in mano è qui, il foglio bianco ancora non ci è stato portato ma ci hanno assicurato che arriverà presto. In questa locanda dell’attesa tutto può accadere. Poi non ci resterà che cominciare, assecondando le pieghe della nostra carne. Ognuno le sue. Ma i miei capitoli si muoveranno paralleli ai tuoi e il finale aperto o doppio o triplo, se ce ne dovesse essere bisogno.
Non ti auguro buon viaggio perchè quando si scrive non si viaggia. Si diventa il viaggio.
L’INCIPIT
Non comincio dall’inizio perchè il senso di ogni diario forse è quello di arrivare quando meno te lo aspetti. Non c’è niente di meno cronologico di un diario. Le date che si appongono in calce servono solo a giustificarne il suo posto nel mondo. Perchè quello che succede oggi in realtà è pure nel domani e nel passato forse è già accaduto. Così come la speranza.
L’unica certezza è il racconto della vita. Che appare, scompare, fa mille passi in avanti, si volatilizza, ritorna. E per ciascuno ci sono una velocità e un passo appropriati. La mia storia, in realtà, ha inizio a febbraio quando hai ricevuto la diagnosi o forse molto prima, quando sono stata concepita. O forse più avanti, quando nella terra ritornerò, quieta. Prendendomi amorevolmente cura.
Comincio oggi per caso. In questa apparente progressione delle pagine provo ad ingannare l’attesa. Da ieri a mezzogiorno è cominciato il conto alla rovescia. Siamo in attesa di ricevere una telefonata dall’ospedale che ci dica quando potrai essere ricoverato. In attesa che il telefono squilli come una sveglia che scuota dal torpore immobile. Dunque scrivo per ricordarmi in futuro di questi giorni e del mio stato d’animo o forse per dimenticarli del tutto. Questo lo capirò solo più avanti.
Il tuo foglio non aggiunge altro. L’ho trovato in cucina, sul mobile davanti al quale chiunque venga a trovarti può passarvi davanti. “Studio 02.456345”. Un numero di telefono che è una promessa di continuità. Lo studio è quello del medico dove hai ricevuto da solo il verdetto. Carcinoma all’esofago.
Deve essere il senso del dovere che non mi lascia tregua neanche di fronte ad un foglio bianco. Rieccomi qui a scrivere. Il telefono ancora non ha squillato. Sei uscito a fare una passeggiata, rientrato, ti sei concesso perfino il sonno pomeridiano. Io rigida vicina al mobile in cui il telefono giace morto. Nessun ricovero per il momento. Dunque nessun inizio di cura. E allora mentre le dita scivolano sul tavolo per ingannarsi e procedono di loro la testa va in automatico, costruisce elaborate strutture mentali, per poi uscirne e rientrare in nuove, un tunnel del pensiero in cui non c’è fine. O forse sono io che mi rifiuto di vederla.
La telefonata non arriva ed io ce l’ho con il mondo intero, con i medici irresponsabili, con il direttore sanitario che li guida, con l’ospedale intero che si erge tempio muto senza pietà per i suoi adepti, con il paese intero che lascia ancora i malati di cancro da soli. Ce l’ho con te che non mi hai raccontato subito cosa stesse accadendo nel tuo corpo. Ce l’ho con il silenzio che crea il tabù proprio quando bisognerebbe liberare adesso tutti i freni inibitori. Sono contro tutti oggi. Ma la rabbia genera solo versi. E questo mi fa arrabbiare ancora di più.
Gesti coordinati come fossero parole, sparse in attesa di un discorso. Mi muovo così, sul filo del silenzio, ragno che produce la tela necessaria alla tua protezione. Abbandonati a te.
Per oggi basta. A forza di scrivere, il telefono mi punisce con il suo silenzio.
Hai scoperto il male da solo. Era dentro di te ma l’hai ricacciato dentro. Lui però è avanzato di nuovo e per quanto tu ti sforzassi a buttarlo indietro la sua controspinta è stata più forte.
“24 febbraio” leggo nel foglio che ritrovo infilato sotto la pila di libri, poggiati sulla scrivania del tuo studio. Deve essere quello il giorno in cui ti sei ritrovato davanti ad un referto che non ammetteva repliche. E’ di te che si parlava e l’ultima parola non sei stato evidentemente tu ad averla. Il foglio lo hai nascosto. Per dimenticarlo o per costringermi alla caccia al tesoro?
La tua circonferenza esistenziale si è ristretta all’improvviso. Ti immagino così davanti a quel foglio da leggere. Letto. Da rileggere e via ancora, quasi all’infinito per impedire alle parole di trascinarsi stanche ma affamate dalla carta alla realtà. Il regno della malattia è un regno individuale e nel tuo caso non c’è contagio, come succede con la scrittura. Il dolore non ha centro nè periferia. E anche per la scrittura è così. Però il tuo cancro si è tutto concentrato in un punto, l’esofago. Un sole nero che trasforma i solidi in liquidi e i gas in solidi. Una rivoluzione interiore. In fisica si chiamano cambiamenti di stato. E cambiano le relazioni delle molecole nel passaggio da uno stato all’altro. Così è adesso per te. Ma non ci sono le parole per dirlo.
Hai paura di non riconoscerti più nel tuo nuovo corpo. Questo devi aver temuto quel giorno. Con chi eri, se eri con qualcuno, come eri vestito, pensando a cosa ti eri svegliato quella mattina sono adesso interrogativi inutili anche se non smetto di formularli in continuazione. Rivivo un giorno in cui non c’ero. Il più brutto della tua vita. La diagnosi del tuo cancro. Il dolore poi deve aver preso il posto del dispiacere. E della noia. E dell’incuria. Si è infilato, si è allargato, si è riunito a se stesso fino ad invadere tutto. L’occupante non teme barricate nè cauterizzazione, agisce a macchia d’olio. Io adesso assisto a questo spettacolo, che riscostruisco immaginandolo, senza dire una parola.
Mi chiedo se fossi stata al tuo posto come avrei reagito. Mi sarei infastidita probabilmente di fronte al tempo che si riduce drastico, sono tante ancora le cose che debbo fare, penso, prima di andare. E tu? In questa sottrazione spietata cosa avevi in mente di compiere che ora non potrai? Chissà quali erano i tuoi piani. Ora riduci i tuoi gesti quotidiani al minimo. Economizzi energie e parole. I pensieri non so. Magari ti si sono moltiplicati, portandoti in un altrove che è già una benedizione. E’ difficilissimo starti accanto. Tradisco la volontà e i sentimenti dunque rimanendoti vicino.
Non smetti di allenarti. Sono venti anni che corri, tre volte a settimana, rigorosamente all’alba più la corsa della domenica, perchè dovresti smettere proprio adesso? Le scarpe sono quelle di sempre, anche i calzoncini e la radiolina. La maglietta no, senti più freddo da quando ti hanno scoperto il male dentro. E anche il corpo sembra andare continuamente da una parte opposta alla direzione che desideri. Un’entropia, la tua vita adesso è un’entropia.
Resisti all’inerzia della malattia correndoci sopra. E dentro.
Il telefono non squilla ancora anche se l’eco di ciò che attendo è diventata la vibrazione sonora di tutti gli oggetti di casa. Mi illudo di udirne l’inconfondibile trillo perfino sotto la doccia. Ma volatilizzato in rapidi istanti l’effetto sonoro, resta solo il riverbero dell’acqua che scivola sui vetri. Non è fontana di suoni, per me è acqua e basta, foriera di niente se non del suo presente. Tu non mi sorridi da giorni, da quando ho preso il mio aereo e sono corsa a casa tua con la scusa di un visto senza il quale non avrei potuto vivere nella mia nuova patria. Se è un piano che hai in mente sei bravissimo perchè con me riesci a non far trapelare neanche un’emozione. Sei avaro di parole, di sorrisi, di buone azioni. Anzi sembri subliminalmente soddisfatto se qualcosa di doloroso mi accade. Con gli estranei sorridi, parli, arrischi perfino battute. Da me ti schermi con il gelo del silenzio. Sono forse io l’unica vera estranea per te? Me la sono fatta la domanda ma non davanti allo specchio perchè solo quell’interrogazione mi avrebbe rattrappito in una smorfia. Ho preferito non vedere.
Ti sono estranea. La grande estranea. La comunione ti fa paura e il tuo cancro a questo ti vorrebbe costringere. Ad entrare nel profondo delle cose, a vedere se c’è qualcosa dietro i sentimenti, a sentirti parte di me e io con te. Forse vuoi solo risparmiarmi il dolore, quello pieno dell’impotenza. E allora ti ripari dentro un dolore che dovrebbe sembrarmi più piccolo. Ma non riesco più a vedere confini. Sono dentro il mondo ma il mondo dentro di me non riesco più a contenerlo. Il suo peso non mi è più lieve.
La lavatrice gracchia senza sosta. E’ così che manifesta agli altri e a se stessa il suo essere viva. Sul suo ripiano in plastica giace un altro foglio vergato di tuo pugno. E’ il terzo che trovo in pochi giorni. Troppo per uno come te abituato a centellinare le parole e solo a pronunciarle. Come se stessi davvero scrivendo un romanzo.
La lavatrice si muove di vita propria, con i ritmi che le programmano il respiro, i programmi che le impongono le frasi da dire. Io continuo a pensare. E i pensieri sono così tanti e tutti così desiderosi di farsi largo che alla fine si schiacciano da soli e la testa rimane pesante e vuota. Non ho mai trovato tanti fogli scritti di tuo pugno come in questi giorni. Stai scrivendo un romanzo. Ma è un’ipotesi non percorribile. E anche questo pensiero ritorna in quel magma informe da cui è emerso. Tu hai sempre preferito la voce alla scrittura, questo mi è sempre stato molto chiaro. Perchè la voce arriva all’improvviso e muore nello stesso momento in cui nasce. No, non stai scrivendo un romanzo.
Nell’ultimo foglio che ho trovato però, rispetto ai precedenti, pur inseguendo la schematicità delle frasi ti sei dilungato nei periodi. Sembra che tu voglia raccontare qualcosa. E raccontare di più. Il testo forma geometrie nelle quali imbrigli adesso l’esistenza e le sue regole. Una possibilità di scrittura anche questa. O forse ti stai semplicemente limitando a trattenere la vita attaccandoti a tutto. Anche ad un pezzo di carta.
Comincio a leggere in attesa del colpo di scena. Se è un romanzo deve per forza esserci un colpo di scena. Ma non può essere un romanzo.
“Inserire il detersivo nella vaschetta di sinistra.
Mettere la biancheria e chiudere lo sportello.
Spostare la manopola di estrema destra sul programma “40 delicato”. Le altre manopole non vanno toccate.
Premere il tasto avvio/pausa.”
Sono le istruzioni della lavatrice che hai scritto. Immagino che il foglio sia indirizzato a me visto che in casa a parte te e adesso me non c’è nessuno. Queste parole sono nate e morte solo per me. La mia schiena si riallinea su se stessa, un movimento improvviso raddrizza la sua postura nel mondo e mi inorgoglisce.
Rifletto sul foglio che hai lasciato. Ogni frase di quelle che hai selezionato è un’azione e ogni azione ne genera un’altra. Alla fine si approda ad un risultato che è il trionfo del pulito sullo sporco, e via di metafora del bene sul male, del sano sull’insano anche se questo non lo scrivi. Tutto solo con una lavatrice in scena. Una macchina. E’ la scrittura con più alto senso morale che mi sia capitata finora sottomano. Ed è tua. Stavolta il biglietto me lo prendo, lo ripiego e lo nascondo furtivamente in tasca. Sto cominciando a rubare. A casa mia. I capitoli del tuo libro.
MIO PADRE STA SCRIVENDO UN ROMANZO
di
Maria Zuppello
A mio padre,
che ha sempre portato il suo remo in spalla.
A mio marito Paolo,
fondamenta della mia esistenza
A Barbara,
divisa dall’oceano, unita dal destino.
A Regina, Pinuccia e Paolo
E al loro talento nel rendere lievi le spine.
Fortuna è una parola priva di significato.
Nulla esiste per caso
Voltaire
E’ il grande romanzo della tua vita e un pò anche il mio. La penna in mano è qui, il foglio bianco ancora non ci è stato portato ma ci hanno assicurato che arriverà presto. In questa locanda dell’attesa tutto può accadere. Poi non ci resterà che cominciare, assecondando le pieghe della nostra carne. Ognuno le sue. Ma i miei capitoli si muoveranno paralleli ai tuoi e il finale aperto o doppio o triplo, se ce ne dovesse essere bisogno.
Non ti auguro buon viaggio perchè quando si scrive non si viaggia. Si diventa il viaggio.
L’INCIPIT
Non comincio dall’inizio perchè il senso di ogni diario forse è quello di arrivare quando meno te lo aspetti. Non c’è niente di meno cronologico di un diario. Le date che si appongono in calce servono solo a giustificarne il suo posto nel mondo. Perchè quello che succede oggi in realtà è pure nel domani e nel passato forse è già accaduto. Così come la speranza.
L’unica certezza è il racconto della vita. Che appare, scompare, fa mille passi in avanti, si volatilizza, ritorna. E per ciascuno ci sono una velocità e un passo appropriati. La mia storia, in realtà, ha inizio a febbraio quando hai ricevuto la diagnosi o forse molto prima, quando sono stata concepita. O forse più avanti, quando nella terra ritornerò, quieta. Prendendomi amorevolmente cura.
Comincio oggi per caso. In questa apparente progressione delle pagine provo ad ingannare l’attesa. Da ieri a mezzogiorno è cominciato il conto alla rovescia. Siamo in attesa di ricevere una telefonata dall’ospedale che ci dica quando potrai essere ricoverato. In attesa che il telefono squilli come una sveglia che scuota dal torpore immobile. Dunque scrivo per ricordarmi in futuro di questi giorni e del mio stato d’animo o forse per dimenticarli del tutto. Questo lo capirò solo più avanti.
Il tuo foglio non aggiunge altro. L’ho trovato in cucina, sul mobile davanti al quale chiunque venga a trovarti può passarvi davanti. “Studio 02.456345”. Un numero di telefono che è una promessa di continuità. Lo studio è quello del medico dove hai ricevuto da solo il verdetto. Carcinoma all’esofago.
Deve essere il senso del dovere che non mi lascia tregua neanche di fronte ad un foglio bianco. Rieccomi qui a scrivere. Il telefono ancora non ha squillato. Sei uscito a fare una passeggiata, rientrato, ti sei concesso perfino il sonno pomeridiano. Io rigida vicina al mobile in cui il telefono giace morto. Nessun ricovero per il momento. Dunque nessun inizio di cura. E allora mentre le dita scivolano sul tavolo per ingannarsi e procedono di loro la testa va in automatico, costruisce elaborate strutture mentali, per poi uscirne e rientrare in nuove, un tunnel del pensiero in cui non c’è fine. O forse sono io che mi rifiuto di vederla.
La telefonata non arriva ed io ce l’ho con il mondo intero, con i medici irresponsabili, con il direttore sanitario che li guida, con l’ospedale intero che si erge tempio muto senza pietà per i suoi adepti, con il paese intero che lascia ancora i malati di cancro da soli. Ce l’ho con te che non mi hai raccontato subito cosa stesse accadendo nel tuo corpo. Ce l’ho con il silenzio che crea il tabù proprio quando bisognerebbe liberare adesso tutti i freni inibitori. Sono contro tutti oggi. Ma la rabbia genera solo versi. E questo mi fa arrabbiare ancora di più.
Gesti coordinati come fossero parole, sparse in attesa di un discorso. Mi muovo così, sul filo del silenzio, ragno che produce la tela necessaria alla tua protezione. Abbandonati a te.
Per oggi basta. A forza di scrivere, il telefono mi punisce con il suo silenzio.
Hai scoperto il male da solo. Era dentro di te ma l’hai ricacciato dentro. Lui però è avanzato di nuovo e per quanto tu ti sforzassi a buttarlo indietro la sua controspinta è stata più forte.
“24 febbraio” leggo nel foglio che ritrovo infilato sotto la pila di libri, poggiati sulla scrivania del tuo studio. Deve essere quello il giorno in cui ti sei ritrovato davanti ad un referto che non ammetteva repliche. E’ di te che si parlava e l’ultima parola non sei stato evidentemente tu ad averla. Il foglio lo hai nascosto. Per dimenticarlo o per costringermi alla caccia al tesoro?
La tua circonferenza esistenziale si è ristretta all’improvviso. Ti immagino così davanti a quel foglio da leggere. Letto. Da rileggere e via ancora, quasi all’infinito per impedire alle parole di trascinarsi stanche ma affamate dalla carta alla realtà. Il regno della malattia è un regno individuale e nel tuo caso non c’è contagio, come succede con la scrittura. Il dolore non ha centro nè periferia. E anche per la scrittura è così. Però il tuo cancro si è tutto concentrato in un punto, l’esofago. Un sole nero che trasforma i solidi in liquidi e i gas in solidi. Una rivoluzione interiore. In fisica si chiamano cambiamenti di stato. E cambiano le relazioni delle molecole nel passaggio da uno stato all’altro. Così è adesso per te. Ma non ci sono le parole per dirlo.
Hai paura di non riconoscerti più nel tuo nuovo corpo. Questo devi aver temuto quel giorno. Con chi eri, se eri con qualcuno, come eri vestito, pensando a cosa ti eri svegliato quella mattina sono adesso interrogativi inutili anche se non smetto di formularli in continuazione. Rivivo un giorno in cui non c’ero. Il più brutto della tua vita. La diagnosi del tuo cancro. Il dolore poi deve aver preso il posto del dispiacere. E della noia. E dell’incuria. Si è infilato, si è allargato, si è riunito a se stesso fino ad invadere tutto. L’occupante non teme barricate nè cauterizzazione, agisce a macchia d’olio. Io adesso assisto a questo spettacolo, che riscostruisco immaginandolo, senza dire una parola.
Mi chiedo se fossi stata al tuo posto come avrei reagito. Mi sarei infastidita probabilmente di fronte al tempo che si riduce drastico, sono tante ancora le cose che debbo fare, penso, prima di andare. E tu? In questa sottrazione spietata cosa avevi in mente di compiere che ora non potrai? Chissà quali erano i tuoi piani. Ora riduci i tuoi gesti quotidiani al minimo. Economizzi energie e parole. I pensieri non so. Magari ti si sono moltiplicati, portandoti in un altrove che è già una benedizione. E’ difficilissimo starti accanto. Tradisco la volontà e i sentimenti dunque rimanendoti vicino.
Non smetti di allenarti. Sono venti anni che corri, tre volte a settimana, rigorosamente all’alba più la corsa della domenica, perchè dovresti smettere proprio adesso? Le scarpe sono quelle di sempre, anche i calzoncini e la radiolina. La maglietta no, senti più freddo da quando ti hanno scoperto il male dentro. E anche il corpo sembra andare continuamente da una parte opposta alla direzione che desideri. Un’entropia, la tua vita adesso è un’entropia.
Resisti all’inerzia della malattia correndoci sopra. E dentro.
Il telefono non squilla ancora anche se l’eco di ciò che attendo è diventata la vibrazione sonora di tutti gli oggetti di casa. Mi illudo di udirne l’inconfondibile trillo perfino sotto la doccia. Ma volatilizzato in rapidi istanti l’effetto sonoro, resta solo il riverbero dell’acqua che scivola sui vetri. Non è fontana di suoni, per me è acqua e basta, foriera di niente se non del suo presente. Tu non mi sorridi da giorni, da quando ho preso il mio aereo e sono corsa a casa tua con la scusa di un visto senza il quale non avrei potuto vivere nella mia nuova patria. Se è un piano che hai in mente sei bravissimo perchè con me riesci a non far trapelare neanche un’emozione. Sei avaro di parole, di sorrisi, di buone azioni. Anzi sembri subliminalmente soddisfatto se qualcosa di doloroso mi accade. Con gli estranei sorridi, parli, arrischi perfino battute. Da me ti schermi con il gelo del silenzio. Sono forse io l’unica vera estranea per te? Me la sono fatta la domanda ma non davanti allo specchio perchè solo quell’interrogazione mi avrebbe rattrappito in una smorfia. Ho preferito non vedere.
Ti sono estranea. La grande estranea. La comunione ti fa paura e il tuo cancro a questo ti vorrebbe costringere. Ad entrare nel profondo delle cose, a vedere se c’è qualcosa dietro i sentimenti, a sentirti parte di me e io con te. Forse vuoi solo risparmiarmi il dolore, quello pieno dell’impotenza. E allora ti ripari dentro un dolore che dovrebbe sembrarmi più piccolo. Ma non riesco più a vedere confini. Sono dentro il mondo ma il mondo dentro di me non riesco più a contenerlo. Il suo peso non mi è più lieve.
La lavatrice gracchia senza sosta. E’ così che manifesta agli altri e a se stessa il suo essere viva. Sul suo ripiano in plastica giace un altro foglio vergato di tuo pugno. E’ il terzo che trovo in pochi giorni. Troppo per uno come te abituato a centellinare le parole e solo a pronunciarle. Come se stessi davvero scrivendo un romanzo.
La lavatrice si muove di vita propria, con i ritmi che le programmano il respiro, i programmi che le impongono le frasi da dire. Io continuo a pensare. E i pensieri sono così tanti e tutti così desiderosi di farsi largo che alla fine si schiacciano da soli e la testa rimane pesante e vuota. Non ho mai trovato tanti fogli scritti di tuo pugno come in questi giorni. Stai scrivendo un romanzo. Ma è un’ipotesi non percorribile. E anche questo pensiero ritorna in quel magma informe da cui è emerso. Tu hai sempre preferito la voce alla scrittura, questo mi è sempre stato molto chiaro. Perchè la voce arriva all’improvviso e muore nello stesso momento in cui nasce. No, non stai scrivendo un romanzo.
Nell’ultimo foglio che ho trovato però, rispetto ai precedenti, pur inseguendo la schematicità delle frasi ti sei dilungato nei periodi. Sembra che tu voglia raccontare qualcosa. E raccontare di più. Il testo forma geometrie nelle quali imbrigli adesso l’esistenza e le sue regole. Una possibilità di scrittura anche questa. O forse ti stai semplicemente limitando a trattenere la vita attaccandoti a tutto. Anche ad un pezzo di carta.
Comincio a leggere in attesa del colpo di scena. Se è un romanzo deve per forza esserci un colpo di scena. Ma non può essere un romanzo.
“Inserire il detersivo nella vaschetta di sinistra.
Mettere la biancheria e chiudere lo sportello.
Spostare la manopola di estrema destra sul programma “40 delicato”. Le altre manopole non vanno toccate.
Premere il tasto avvio/pausa.”
Sono le istruzioni della lavatrice che hai scritto. Immagino che il foglio sia indirizzato a me visto che in casa a parte te e adesso me non c’è nessuno. Queste parole sono nate e morte solo per me. La mia schiena si riallinea su se stessa, un movimento improvviso raddrizza la sua postura nel mondo e mi inorgoglisce.
Rifletto sul foglio che hai lasciato. Ogni frase di quelle che hai selezionato è un’azione e ogni azione ne genera un’altra. Alla fine si approda ad un risultato che è il trionfo del pulito sullo sporco, e via di metafora del bene sul male, del sano sull’insano anche se questo non lo scrivi. Tutto solo con una lavatrice in scena. Una macchina. E’ la scrittura con più alto senso morale che mi sia capitata finora sottomano. Ed è tua. Stavolta il biglietto me lo prendo, lo ripiego e lo nascondo furtivamente in tasca. Sto cominciando a rubare. A casa mia. I capitoli del tuo libro.
L'ENIGMA DI WASHINGTON SQUARE
E' una delle amicizie più misteriose della storia della letteratura, quella tra Mark Twain e Robert Louis Stevenson. Questo romanzo per il quale ho viaggiato in tre continenti prova a ricostruirla. Così.
L’ENIGMA
di
WASHINGTON SQUARE
LA STORIA MAI NARRATA DELL’INCONTRO TRA
ROBERT LOUIS STEVENSON E MARK TWAIN
di
Maria Zuppello
A mio marito Paolo, primo dei miei lettori, meraviglioso compagno di viaggio
Alla mia famiglia e a mia madre, eterna vestale della mia esistenza
A Lara e alla sua generosità straripante
A Simonetta Agnello Hornby per i suoi materni consigli
Come un’introduzione
Non esistono biografie definitive mi disse una volta il grande giornalista brasiliano Alberto Diniz. Per fortuna non ho voluto scrivere una biografia. Ma con il passato da reporter che mi ritrovo è stato inevitabile partire dai fatti. E proprio per la ricerca dei fatti sono stata premiata con una borsa dal Center for Mark Twain Studies, la più importante istituzione statunitense e mondiale dedicata all’icona della letteratura americana, Mark Twain. Per un mese ho potuto vivere, scrivere, fare ricerche, in una delle dimore più amate dall’autore di Tom Sawyer. Quarry Farm, la casa delle sue vacanze, ad Elmira, nello stato di New York. Grazie all’aiuto della direttrice del Center Barbara Snedecor e dell’infaticabile responsabile della Biblioteca dell’Elmira College Mark Whoodhouse che qui ringrazio personalmente ho potuto, così, spiare da vicino i fantasmi che per tre anni mi hanno accompagnato nei miei viaggi nei Mari del Sud. Non mi hanno cacciato e di questo sono loro debitrice.
Ma raccontare la storia dell’incontro di Mark Twain e Robert Louis Stevenson, cioè i due più importanti scrittori anglofoni della seconda metà dell’ottocento, non è stato facile. Su questa “association”, come fu chiamata già da alcuni biografi dell’epoca, è calata una strana avarizia di parole.
Ecco, io sono partita proprio da questo. Dal silenzio che ha circondato quell’incontro. Laddove finivano i fatti allora non poteva che cominciare il romanzo.
OVUNQUE,
l’incipit
SOSIMO
Sosimo. Il mio nome è Sosimo. Ma in samoano non vuol dire nulla. Meglio, meno problemi. Il destino non è scritto nel mio nome. Debbo vivere e non pensare ad altro. Sono solo un testimone. Quello che posso dire è che il veleno era stato somministrato un poco alla volta. Ogni giorno, probabilmente alla stessa ora, in pieno rispetto delle inclinazioni del sole e dei suoi piani di intersecazione con il paesaggio circostante. 10 ml. Ma il largo bicchiere di vetro non ne ha mai lasciato trasparire né il colore né l’odore. Non ho nulla da rimproverarmi io. Perfetto nel movimento, non una sbavatura, non un accenno di caduta. Tutti qui nella casa di Vailima lo pensano. Che il servitore personale di Robert Louis Stevenson gli è stato fedele anche nei dettagli.
Tutti i giorni alla stessa ora. Mi recavo in cucina, aprivo la madia foderata di tapa, attingevo con misurata generosità al prezioso dono, una lunga e affilata bottiglia. Incolore. Poi salivo le scale per arrivare fin su nello studio dello scrittore. Che al rito quotidiano non si è mai sottratto. Così, tutto d’un fiato la medicina andava giù. Mentre davanti alla finestra l’Oceano Pacifico si stendeva largo sulla costa samoana. La morte per il mio padrone, lo scrittore famoso in tutto il mondo per i suoi racconti di avventura, è arrivata qui nella casa dell’isola di Upolu, nei Mari del Sud. Forse per avvelenamento. Forse no. E’ stato sicuramente omicidio.
Perché i nostri antenati a Samoa dicevano che si muore uccisi ogni volta che qualcuno seppellisce i nostri desideri prima ancora di aver seppellito i nostri corpi.
ROBERT LOUIS STEVENSON
I morti non parlano e se parlano possono dire cose sconvenienti. E’ per questo che la maggior parte di loro si tace. Debbo dunque ponderare le parole come se fossero pesi. Dosarle. Dirò l’essenziale. Che il mio nome è Robert Louis Stevenson e che tutto comincia sempre molto prima. Che i fatti avvengano e che i corpi si creino per animare quei fatti. Prima dei pensieri. Che sono il filo che muove ogni cosa.
Prima di Samoa nei Mari del Sud, dove mi trasferii per aspettare la morte, ci furono tre viaggi nel Pacifico e prima ancora qualcosa, nella mia testa. In un punto invisibile. Non era un pensiero ma qualcosa che lo precedeva. Un nucleo dotato di una sua massa. Atomi. Sì atomi. Dovetti, dunque, solo aspettare. E non importava che fossi uno dei più importante scrittori anglofoni di metà ottocento. Dovetti aspettare e basta. Che si creassero i corpi e che i fatti avvenissero. Mi misi in attesa.
Poi arrivò il momento. E anche per me fu possibile accedere al tesoro che avevo trovato solo a parole, con la mia “Isola del tesoro” avevo venduto migliaia e migliaia di copie in tutto il mondo. A diradare le nebbie dell’attesa e rendere possibile l’azione fu la morte di mio padre. Come se le profondità dell’io avessero bisogno di quel silenzioso assenso per concedersi altro. Accadde l’8 maggio 1887. Non andai al funerale. Ma non era una novità, con mio padre Thomas non sono mai andato d’accordo, anche se mantenevamo le apparenze. Però l’ultima finzione no, non ho voluto concedergliela. Il feretro ha sfilato per le vie di Edimburgo, come è costume da noi in Scozia. Ma io non c’ero. Il vuoto è stata la mia conclusione. Lo scrittore in famiglia, del resto, sono io.
Così, finite le cerimonie ed esaurite le sepolture, ricomparvi. Potevo finalmente adesso salpare gli ormeggi. Ma per dove? Dopo aver tanto atteso, una vaga eccitazione si impossessò di me, così vaga che non mi fece intravedere la rotta. I Mari del Sud non arrivarono subito, erano troppo lontani. Prima serviva l’incipit e l’incipit fu Manhattan, la prima della lunga serie di isole che avrebbero attraversato la mia esistenza frantumandola. Prima del salto. L’ultimo.
Lo avevo fatto in passato, negli Stati Uniti ero già venuto, ma questa volta era diverso. Perché questa era la volta per tutte, da cui non sarei mai più tornato indietro. L’irreversibilità cominciava a formularsi come valore unificante della mia esistenza. Ma questo ancora non potevo saperlo. E non sapevo neanche che l’assenza del mago non smorzava l’incantesimo. Se mio padre era stato l’ostacolo principale in cima a quell’atomo nascosto nella mia testa, con mio padre prima o poi sarei tornato a fare i conti. Anche se ormai da mero fantasma. New York mi parve un buon inizio per ricominciare ma solo un inizio.
Gli Stati Uniti furono la pedina decisiva nella mia scacchiera geografica. Non solo perché si trovavano esattamente a metà nella mappa del percorso che mi avrebbe poi portato nei Mari del Sud ma perché qui avvenne un fatto. In realtà ne avvennero molti. Ma uno solo riuscì ad isolarsi da tutti gli altri. Perché in apparenza il più insignificante. Si isolò per rimanere sullo sfondo ma si solidificò a tal punto da trasformare interamente la materia di tutti gli altri fatti che, invece, erano in primo piano, e della mia stessa anima. Posso affermare con certezza che i Mari del Sud ne divennero addirittura il suo corollario.
Ora, in quel fatto non c’era stato spargimento di sangue, né colore. Anzi tutti i colori erano sfumati via, come se ci avesse piovuto sopra per anni. Perfino le forme sembravano pronte a sparire, solo un colpo di pennello avrebbe potuto resuscitarle. E così fu. Ma il colpo vibrante fu sferzato qualche anno più tardi, a 10 mila km a est, a Tahiti in Polinesia francese. Da un pittore di nome Paul Gauguin. Che consegnò alla bellezza le forme più nascoste di quel fatto. Sopravvissuto a se stesso e ai personaggi di cui si era servito per esistere. A partire dal sottoscritto.
Si badi, non era stato quello un delitto, il sangue a New York si paga caro e non ripaga delle fatiche intraprese per raggiungere la città, però avrebbe permesso di capire il perché del mio omicidio a Samoa. E non era stato neanche un furto perché nulla venne tolto ma semmai molto aggiunto. Quel fatto, insomma, così difficile da descrivere e riprodurre avrebbe aiutato a comprendere molte cose. Tra cui il senso della mia traiettoria, da New York ai Mari del Sud e di quella più profonda, che nessuno vede.
MARIA
Dovevo andare sul K2. Faccio la reporter televisiva e può succedere. Invece, per un problema di diritti televisivi che, all’ultimo, mi hanno impedito di seguire la spedizione italiana nel cinquantesimo anniversario della presa della vetta, mi sono ritrovata su una nave cargo. Ma non era una nave qualsiasi e avrei dovuto capirlo dal nome: Aranui, che in taitiano significa “Grande Viaggio”. E il viaggio era alla lettera proprio grande perché mi avrebbe portato dall’altra parte del pianeta. In Polinesia, nel cuore dell’Oceano Pacifico, che da solo rappresenta 1/3 della superficie dell’intero pianeta.
Lì sarebbe accaduto qualcosa. I miei passi sulla sabbia avrebbero seguito le orme di un uomo che è vissuto più di cento anni fa. Un uomo che è stato 60 % scrittore, 40% avventuriero per sua stessa definizione: Robert Louis Stevenson. L’acqua, almeno in quella parte di mondo, non ha avuto il coraggio di cancellare le sue orme.
Il libro che ne è venuto fuori non è una dissertazione scientifica, non è una tesi di laurea, non è un saggio letterario. Non è neanche una guida turistica perché non propone alcun percorso anzi li mescola tutti. Ma non è neppure un romanzo né tantomeno uno yarn, cioè uno di quei racconti di marinai scivolati di bocca in bocca nelle navi e nelle taverne dei porti del Pacifico. Non è poesia.
Questo libro è piuttosto la cronaca fedele di uno strano incontro, di tre persone che
non si sono mai conosciute in un tempo che non esiste. Di questa apparente magia resta solo uno spazio, geografico. Quindi raffigurabile, nelle mappe come nella fantasia.
E', dunque, un libro d' avventura perché, fino alla fine tutto può succedere.
FANNY VANDEGRIFT
Sono la moglie di Louis, Fanny. Sono più grande di lui di almeno dieci anni. Almeno. Ma non ci tengo a dire di più. Accrescerebbe il solco della differenza mentre la nostra vita insieme è stata un tentativo continuo di farci uguali. Se il tentativo sia riuscito questo non posso dirlo. Alla sua morte mi sono messa con un altro, venticinque anni più giovane di me. Poi io sono morta e col mio amante ci si è messa mia figlia Belle. Proprio non posso dirlo, allora, se sia stato un tentativo riuscito. Con Luis di certo ci siamo inseguiti a vicenda e inseguendoci ci siamo allontanati. Succede quando a coincidere sono solo le rotte geografiche.
Volevo anche aggiungere un’altra cosa. Sono scura di pelle. Mi chiamano la gipsy, la gitana. Non nel nome ma nella mia pelle è scritto, dunque, il mio destino. Nomade, fino alla fine.
LLOYD OSBOURNE
Chi furono i miei genitori non riesco a dirlo. Fanny VandeGrift era mia madre ma Sam Osbourne mi fu padre solo biologicamente, Louis che invece arrivò dopo il divorzio divenne madre e padre. Insieme. Lo amai. Fanny a questo punto era di troppo.
ROBERT LOUIS STEVENSON
“Mr. Stevenson sailed for the United States with the intention of remaining here for some time a long time, possibly. The voyage seemed to do him so much good, however, that on the way over he resolved to linger in America but a short while, and then take ship for Japan”.
Questo scrisse la stampa di me una volta sbarcato negli Stati Uniti. Ma del Giappone non era vero nulla. Solo che al New York Critic uscito in edicola il 17 settembre 1887 quello che premeva era che uno dei più famosi scrittori della letteratura inglese del tempo, cioè io, fosse sbarcato in terra americana. Il resto erano supposizioni. Che cosa poi New York potesse rappresentare per me questo nessuno poteva dirlo. Un’alchimia che avrebbe restituito un uomo nuovo alla sua vita, una porta d’accesso ad altro, ogni ipotesi era percorribile.
Tre quadri riassumono l’iconografia di questo enigma. E le storie che si trascinano dietro e i personaggi che li hanno toccati per crearli o solo per possederli. Tutti trasformati in frammenti di una narrazione che per il momento parte da me e che con me finisce. I passaggi intermedi se ci sono adesso hanno finalmente l’opportunità di resuscitare. Ogni singolo fatto si farà così paradigma e permetterà di avvicinarsi a piccole dosi a quell’altro di fatto, quello sullo sfondo, per il quale ancora non esistono nè parolè né descrizioni. Tutto conduce lì. Se fosse un giallo questi sarebbero indizi.
JOHN SINGER SARGENT
I miei quadri. I miei tre quadri. Ma oggi, a disposizione degli studiosi, ne restano solo due. E il terzo?
Premetto che capitava spesso che in epoca vittoriana nelle famiglie borghesi e aristocratiche si commissionassero ritratti. Stevenson apparteneva di diritto alla categoria e per di più era scrittore, ad un certo punto della sua vita anche molto famoso non solo in Scozia e in Inghilterra ma in tutto il mondo. Ritrarlo era un piacere. Ma anche un dovere. Non si poteva tralasciare un personaggio del genere. No.
Lo ritrassi, dunque, tre volte.
Fu facile incontrarsi. Inevitabile. La mia mappa geografica esattamente inversa alla sua. Nato a Firenze, ero figlio di americani. E non mi sono mai sposato. Primo indizio. Mi fu attribuita, sì, una breve storia d’amore negli anni ’80 con una certa Louise Burkhardt, una svizzeroamericana che viveva a Parigi, ma quello che si mormorava, in Francia come a Londra, nei caffè letterari come nelle accademie era altro. Che non si lasciava dire ma solo sussurrare. Io amavo gli uomini. E intanto continuavo a dipingere e a viaggiare. Altre forme di amore. Secondo indizio.
Mi ero formato a Parigi all’Ecole des Beaux-Arts dove avevo stretto amicizia con Monet masticando la lingua dell’impressionismo ma fu la Gran Bretagna a consacrare il mio talento trasformandomi in uno degli artisti più famosi del tempo. I ritratti erano la forma d’arte che preferivo. Circoscrivere l’intera vita di una persona in una forma, raggelarla in un istante, un atto creativo obbediente per molti all’istinto di onnipotenza. Per me, invece, la categoria dei pittori era solo una porzione di umanità al servizio di se stessa. E del suo desiderio che nel dipingere trovava il perfetto compimento.
Nel corso della mia carriera la pennellata leggera e asciutta ha dato corpo a circa cinquecento ritratti. Cinquecento persone consegnate all’arte, salvate dall’oblio. Per Robert Louis Stevenson ci fu un’eccezione. Tre ritratti invece di uno. Uno dietro l’altro, uno conseguenza dell’altro. E qui gli indizi finiscono per lasciare spazio di nuovo alla narrazione.
MARIA
Quella rapida successione di quadri oggi non è più percorribile. Gli studiosi d’arte che intendano esaminare la triade sono costretti a cominciare tutti, infatti, dal secondo ritratto. Mai dal primo. Del primo addirittura sono in molti a tacere. Le parole come tomba. Per nascondere. Per uccidere. Qualcosa o qualcuno che, in realtà, è già morto. Partii da lì.
"Robert Louis Stevenson and His Wife," di John Singer Sargent, olio su tela
Fino al 2004 di questa tela si diceva poco o nulla. Era considerata, questo sì, un’opera di valore, tanto più che si trattava di uno dei pochissimi quadri raffiguranti lo scrittore in compagnia della moglie Fanny. E si sapeva anche che apparteneva alla già ricca collezione della famiglia Whitney, appassionata di Impressionismo ma anche di pittura americana. Nel 2004, però, succede qualcosa. Su questo ritratto si riaccendono di nuovo i riflettori, come se fosse arrivato il momento di tornare a parlare. Il quadro va all’asta da Christhie’s e le quotazioni partono altissime, tra i $5,000,000 e i $7,000,000. Alla fine viene aggiudicato per $8,800,000, non un dollaro di più, non un dollaro di meno. Quel quadro, comunque, li valeva tutti. Ma non pensava questo Steve Wynn quando vinse quell’asta. No. Pensava solo alla parete gialla del salone centrale al primo piano della sua lussuosa villa di Las Vegas. E a come appendere quella tela e a cosa togliere per farle spazio. Era un uomo pratico Steve, i suoi sessantaquattroanni a qualcosa gli erano serviti, i suoi natali nel Connecticut pure. Pratico, fin da giovane. Non credeva né negli atomi, né nei quanti, solo nei prodotti ultimi delle molecole. Le mani, le sue mani erano le uniche depositarie a suo avviso della verità. I quadri li comprava per toccarli, lui.
Toccare, toccare, anche la sua vita che pure ogni volta sembrava sfuggirgli. Toccare per trattenerla, per non disperdersi. Per scongiurare la morte che era invisibile. Intraprese un lungo percorso Steve per arrivare ai suoi quadri. Si arruolò giovanissimo in una antica Confraternita di ricchi ebrei, fondata nel 1909, la Sigma Alpha Mu, una specie di società segreta dove giovani e brillanti universitari che sognavano una Terra Promessa si davano una mano l’un con l’altro, facendo leva sui valori più profondi dell’ebraismo. Ma da sola la Confraternita non bastò. Per fare i soldi, unica prova tangibile secondo lui dell’essere in vita e esserlo adesso, serviva un salto. Le gambe erano disposte, arcuate ma pronte, solo che non aveva valutato l’ampiezza della distanza. Il mestiere che si inventò, insomma, poteva avere delle incognite. Eppure sembrava la gallina dalle uova d’oro, il “casino resort developer” era qualcuno che portava la civiltà nel deserto. O pressappoco. Dove non esistevano casinò ci pensava Steve a costruirli, creandogli poi il mondo intorno. E fece i soldi. E i soldi si moltiplicarono. La prova del suo essere in vita, sì la prova.
STEVE WYNN
Non sono mai sicuro della felicità. E anche se esistesse realmente l’oscillazione che questo sentimento comporta scombussola tutto rendendomi continuamente infelice. Hanno rapito mia figlia in un modo così rocambolesco che Hollywod a lei si è ispirata per il film “Ocean’s eleven”. La nostra infelicità, stampata per sempre sulla pellicola. I soldi però continuano ad agitarsi, mi chiamano, sembrano impazziti in gabbia. E io rendo loro la libertà perduta. Comprando quadri su quadri. Con un impulso animale ho acquistato “Giudecca, La donna della Salute e San Giorgio” di Turner. Ho sborsato 35.8 milioni di dollari. Ma le tele le tengo gelosamente per me, al massimo le espongo a rotazione nei miei casinò. Solo per me.
Poi c’è stato il tradimento. L’arte non mi ha protetto. L’arte che avevo comprato dissanguandomi mi ha tolto l’immunità. Sono finito ammalato di retinitis pigmentosa. Gli occhi hanno cominciato a dilatare le forme fino a perdere il centro del loro equilibrio e tutto il resto del corpo gli è andato dietro. E’ in quel momento che ho compreso che l’ asse di rotazione della mia persona risiedeva nello sguardo, non più nel tatto e che l’intero mio essere dipendeva da questo. Che la prova della mia esistenza non si fondava sulle mani ma più in alto, stampata come era sul volto. E, invece, mi restavano adesso solo le mani e i quadri. Forse, non avrei avuto molto tempo ancora da vivere.
Riuscii, però, a godermi l’ultima visione del quadro di Sargent. Appeso in uno dei miei casinò. Il lotto numero 10 di Christie’s. Me lo ricordo come se fossi ieri. Sudavo, nonostante la leva dell’aria condizionata fosse schiacciata al massimo e bevessi succo tropicale, ma non servì a molto. Ricordo ogni dettaglio. E ora che a causa della malattia non riesco più a distinguere le forme impresse sulla tela, mi resta l’immagine di essa, ridisegnatasi da sola nella mia testa.
MARIA
A dominare la scena nella composizione pittorica è lo scrittore. E’ in piedi ma sembra quasi voler sfuggire alla centralità che Sargent gli ha imposto. Tutto il suo esile corpo è ritratto di lato. Come se Stevenson stesse scappando dal quadro e dalla responsabilità cui il pittore, suo malgrado, lo aveva obbligato. E se lo scrittore scappa per lo spettatore resta solo la porta, aperta, e Fanny, ridotta a poco più di un’ombra, inerte, senza forma, mollemente sdraiata su una poltrona. Il suo corpo è talmente lontano dalla scena che non ce la fa ad entrare tutto nei confini della tela. Fanny e Louis sono separati nella postura, nelle direzioni degli sguardi, nella materia che compone i loro corpi, nelle pennellate. Fanny e Louis sono separati da una porta che dà su uno sfondo scuro e simbolico. Una scala. Che per scendere devi salire. Guardi il quadro e non sai bene perché ma in bocca ti resta questo: tutto separa Fanny e Louis. Sargent, che aveva conosciuto lo scrittore in Francia quando la coppia ancora non si era incontrata, questo volle ritrarre. Al di là dei corpi e delle posture. Questo e non un bacio appassionato, né una composizione tradizionale con una figura dietro l’altra.
JOHN SINGER SARGENT
Il quadro in questione è un olio su tela. L’ho dipinto nel 1885, non avevo ancora compiuto trent’ anni. Confesso che avevo cominciato a metterci mano un po’ prima, agli inizi del 1882 ma non lo raccontai in giro. Avevo vergogna di qualcosa che non capivo bene neanch’io dove mi portasse. Sono sempre stato timido per quanto riguarda quello che non conosco. Come se l’ignoranza fosse una colpa e avessi bisogno di tutta la vita per espiarne il peccato. E’ per questo che proprio in quegli anni me ne andai via da Parigi e da Londra. Volli sperimentare la quiete dell’arte illudendomi che bastasse il verde della campagna a rappresentarla. Ma solo l’arte può rappresentare quello che non si può descrivere e nulla può rappresentare l’arte se non se stessa. Come poteva mostrarsi calma, allora, e tranquilla? Mi ero, quindi, illuso. Compresi il concetto nella sua interezza all’interno della colonia di artisti di Broadway, nell’English Cotswolds, dove trascorsi qualche tempo. Incontrare altri pittori come me mandò in crisi il mio talento. L’immagine che essi rimandavano, infatti, frantumava la mia ispirazione quotidiana e lacerava l’ immaginazione. Scoprii di essere come loro. La mia mano rimase a lungo in silenzio. Robert Louis Stevenson arrivò in quel momento esatto della mia vita. Lo dipinsi, cercando di capire se quella tela sarebbe stata per me l’ultima. Ancora adesso mi chiedo se il ritratto dello scrittore con sua moglie fu espressione del mio tormento o un tentativo, estremo e privo di freni inibitori, per sfuggirvi.
Withney, il primo collezionista che lo ebbe fra le mani, evidentemente si era innamorato del quadro proprio per questo, per le domande che lasciava aperte e per l’inquietudine che lo teneva vivo. Ma era una verità che non voleva condividere con nessuno. Fintanto che rimase in suo possesso, l’opera non fu quasi mai prestata, neanche per mostre temporanee. Rimase per anni un affare riservato, tra un collezionista appassionato e ricchissimo e tre fantasmi, a partire da me.
ROBERT LOUIS STEVENSON
Non ricordo come fu che incontrai Sargent. Molto probabilmente attraverso Henry James, il mio amico scrittore o Bob mio cugino che aveva studiato pittura a Parigi con lui. Proprio non ricordo e mi chiedo ancora il perché di quest’oblio. Tantopiù che ero rimasto profondamente colpito dalla sua persona, come se la sua postura di vita fosse un modello per la mia. Era in realtà lui il modello, io il pittore. In ogni caso di me disse che fui la più intensa creatura che avesse mai incontrato.
Erano quelli gli anni più critici della mia esistenza e al tempo i più decisivi. Avevo da tempo superato la trentina ma non potevo più definirmi un trentenne. E i quaranta erano ancora dall’altra parte del fiume. Potevo allungare la mano questo sì, ma essi restavano ancora imprendibili. Non ero, come si direbbe oggi, né carne né pesce. Fu per questa ragione, forse, che ebbi all’improvviso successo e per giunta nel campo che avevo eletto a mia passione, cioè la letteratura. Ma non potevo considerarmi fortunato. Perché la fortuna, per come la immaginavo io, era altro. Costruzione, espansione della fantasia, dilatazione del sé. E invece io ero rattrappito in una smorfia. Il successo che venne a questo doveva servire, a tirarmi fuori dal guscio. Ma non sapeva che il guscio era parte di me, la gobba invisibile nella quale nascondendomi ritrovavo la pace.
L’Isola del Tesoro era piaciuta, ovunque si ristampavano copie. Anche di notte mi pareva di sentire il tremulo scalpitio delle rotative e l’odore delle pagine su cui l’inchiostro prendeva forma, duplicando all’infinito quel pensiero che aveva originato il racconto. Dr Jeckyll e Mr Hyde sarebbero arrivati dopo, dopo il quadro di Sargent, intendo, ma Sargent fu abilissimo. Vide prima di me quel guizzo che avrebbe generato la trama del mio libro. Lo vide in quella parte dei miei occhi compresa tra la pupille e il bianco. Io, invece, ancora non me ne ero accorto. Ero troppo preso dai miei disturbi respiratori, un’eccellente distrazione per allontanarsi da sé, almeno per un pò e prendersi una vacanza interiore. Quel quadro, dunque, mi aveva colpito.
MARIA
Mi chiesi, se anche Fanny avesse lasciato un commento e puntualmente lo trovai. In una lettera alla suocera Maggie faceva, infatti, riferimento alla tela ma aveva tutta l’aria di ingoiare un boccone amaro piuttosto che rallegrarsi di un’opera d’arte.
FANNY VANDEGRIFT
E’ delizioso, ma nell’aspetto è folle, dando a noi più valore di quanto abbiamo. Chiunque può avere “il ritratto di un gentiluomo” ma nessuno ne ha mai avuto uno come questo. E’ come una scatola aperta piena di gioielli.
MARIA
Una scatola di gioielli, folle, però, nell’aspetto. Era forse questa una metafora della sua vita di coppia o semplicemente l’immagine che di essa voleva dare? La scatola di gioielli, dunque, come cassaforte di famiglia, con dentro stipati ben bene ogni sorta di segreti?
“Robert Louis Stevenson and his wife”, insomma, sembrava non essere più solo un quadro ma qualcosa di più. Una crepa nell’immagine pubblica di una coppia ormai conosciuta in tutto il mondo. Una dichiarazione di guerra. Di Stevenson contro la moglie. Che Stevenson però non aveva il coraggio di muovere e che Sargent mosse per lui.
« Robert Louis Stevenson », di John Singer Sargent, olio su tela
E’ il terzo quadro che conferma il sospetto. Stavolta Fanny è completamente scomparsa. Resta lo scrittore, lo sguardo frontale, quasi più rilassato e rinfrancato dalla solitudine dell’ insieme. La tela fuga ogni dubbio. Stevenson è solo.
Il quadro venne dipinto, tra la tarda primavera e l’ inizio dell’ estate del 1887, sempre da Sargent, come gli altri due, e sempre nella residenza di Skerryvore a Barnemouth, di proprietà della famiglia di Robert Louis. Ma stavolta su commissione. Di un ricchissimo banchiere di Boston, Charles Fairchild che voleva farne dono a sua moglie Elizabeth, grande ammiratrice dello scrittore, con qualche velleità artistica perchè poetessa e creatrice di un piccolo e vivace salotto letterario. Fairchild visitò gli Stevenson in corso d’opera, nel giugno del 1887, era così che un tempo funzionavano i lavori su commissione, si seguivano appassionatamente da vicino, e invitò la coppia per il settembre di quello stesso anno negli Stati Uniti, tra Manhattan e Newport nel Rhode Island, dove possedeva un meraviglioso cottage. Quel quadro e quell’invito, ma lo scrittore scozzese allora non poteva immaginarlo, avrebbero dato al destino di Robert Louis Stevenson una via d’uscita. O forse l’avrebbero chiusa per sempre.
La tela, invece, una volta autonoma e indipendente dal suo soggetto, se ne sarebbe andata per la sua strada. Nel 1910 la signora Fairchild, fu costretta a disfarsene in seguito ad un rovesciamento economico. Nel 1922 il terzo quadro di John Singer Sargent raffigurante Robert Louis Stevenson finì nella collezione di Anna Sinton e Charles Phelps Taft, ribattezzato “Taft’s Stevenson Portrait” e ancora oggi può essere ammirato nell’omonimo museo di Cincinnati. Arte e vita, almeno in questo caso, fecero finta di non conoscersi.
Uno, due, tre. Dai cataloghi di Christie’s si apprendeva che la cronologia dei quadri di Sargent con Robert Louis Stevenson come oggetto finiva qui. Già, ma mancava il numero uno all’appello, per il quale la casa d’aste non aveva previsto neanche un lotto. Il primo quadro di John Singer Sargent che ritraeva Stevenson sembrava sparito nel nulla. In quell’assenza ogni significato era a questo punto ipotizzabile.
Intanto lo scrittore, insieme a sua moglie Fanny, era appena sbarcato a New York. Pronto a dirigersi al Victoria Hotel.
L’ENIGMA
di
WASHINGTON SQUARE
LA STORIA MAI NARRATA DELL’INCONTRO TRA
ROBERT LOUIS STEVENSON E MARK TWAIN
di
Maria Zuppello
A mio marito Paolo, primo dei miei lettori, meraviglioso compagno di viaggio
Alla mia famiglia e a mia madre, eterna vestale della mia esistenza
A Lara e alla sua generosità straripante
A Simonetta Agnello Hornby per i suoi materni consigli
Come un’introduzione
Non esistono biografie definitive mi disse una volta il grande giornalista brasiliano Alberto Diniz. Per fortuna non ho voluto scrivere una biografia. Ma con il passato da reporter che mi ritrovo è stato inevitabile partire dai fatti. E proprio per la ricerca dei fatti sono stata premiata con una borsa dal Center for Mark Twain Studies, la più importante istituzione statunitense e mondiale dedicata all’icona della letteratura americana, Mark Twain. Per un mese ho potuto vivere, scrivere, fare ricerche, in una delle dimore più amate dall’autore di Tom Sawyer. Quarry Farm, la casa delle sue vacanze, ad Elmira, nello stato di New York. Grazie all’aiuto della direttrice del Center Barbara Snedecor e dell’infaticabile responsabile della Biblioteca dell’Elmira College Mark Whoodhouse che qui ringrazio personalmente ho potuto, così, spiare da vicino i fantasmi che per tre anni mi hanno accompagnato nei miei viaggi nei Mari del Sud. Non mi hanno cacciato e di questo sono loro debitrice.
Ma raccontare la storia dell’incontro di Mark Twain e Robert Louis Stevenson, cioè i due più importanti scrittori anglofoni della seconda metà dell’ottocento, non è stato facile. Su questa “association”, come fu chiamata già da alcuni biografi dell’epoca, è calata una strana avarizia di parole.
Ecco, io sono partita proprio da questo. Dal silenzio che ha circondato quell’incontro. Laddove finivano i fatti allora non poteva che cominciare il romanzo.
OVUNQUE,
l’incipit
SOSIMO
Sosimo. Il mio nome è Sosimo. Ma in samoano non vuol dire nulla. Meglio, meno problemi. Il destino non è scritto nel mio nome. Debbo vivere e non pensare ad altro. Sono solo un testimone. Quello che posso dire è che il veleno era stato somministrato un poco alla volta. Ogni giorno, probabilmente alla stessa ora, in pieno rispetto delle inclinazioni del sole e dei suoi piani di intersecazione con il paesaggio circostante. 10 ml. Ma il largo bicchiere di vetro non ne ha mai lasciato trasparire né il colore né l’odore. Non ho nulla da rimproverarmi io. Perfetto nel movimento, non una sbavatura, non un accenno di caduta. Tutti qui nella casa di Vailima lo pensano. Che il servitore personale di Robert Louis Stevenson gli è stato fedele anche nei dettagli.
Tutti i giorni alla stessa ora. Mi recavo in cucina, aprivo la madia foderata di tapa, attingevo con misurata generosità al prezioso dono, una lunga e affilata bottiglia. Incolore. Poi salivo le scale per arrivare fin su nello studio dello scrittore. Che al rito quotidiano non si è mai sottratto. Così, tutto d’un fiato la medicina andava giù. Mentre davanti alla finestra l’Oceano Pacifico si stendeva largo sulla costa samoana. La morte per il mio padrone, lo scrittore famoso in tutto il mondo per i suoi racconti di avventura, è arrivata qui nella casa dell’isola di Upolu, nei Mari del Sud. Forse per avvelenamento. Forse no. E’ stato sicuramente omicidio.
Perché i nostri antenati a Samoa dicevano che si muore uccisi ogni volta che qualcuno seppellisce i nostri desideri prima ancora di aver seppellito i nostri corpi.
ROBERT LOUIS STEVENSON
I morti non parlano e se parlano possono dire cose sconvenienti. E’ per questo che la maggior parte di loro si tace. Debbo dunque ponderare le parole come se fossero pesi. Dosarle. Dirò l’essenziale. Che il mio nome è Robert Louis Stevenson e che tutto comincia sempre molto prima. Che i fatti avvengano e che i corpi si creino per animare quei fatti. Prima dei pensieri. Che sono il filo che muove ogni cosa.
Prima di Samoa nei Mari del Sud, dove mi trasferii per aspettare la morte, ci furono tre viaggi nel Pacifico e prima ancora qualcosa, nella mia testa. In un punto invisibile. Non era un pensiero ma qualcosa che lo precedeva. Un nucleo dotato di una sua massa. Atomi. Sì atomi. Dovetti, dunque, solo aspettare. E non importava che fossi uno dei più importante scrittori anglofoni di metà ottocento. Dovetti aspettare e basta. Che si creassero i corpi e che i fatti avvenissero. Mi misi in attesa.
Poi arrivò il momento. E anche per me fu possibile accedere al tesoro che avevo trovato solo a parole, con la mia “Isola del tesoro” avevo venduto migliaia e migliaia di copie in tutto il mondo. A diradare le nebbie dell’attesa e rendere possibile l’azione fu la morte di mio padre. Come se le profondità dell’io avessero bisogno di quel silenzioso assenso per concedersi altro. Accadde l’8 maggio 1887. Non andai al funerale. Ma non era una novità, con mio padre Thomas non sono mai andato d’accordo, anche se mantenevamo le apparenze. Però l’ultima finzione no, non ho voluto concedergliela. Il feretro ha sfilato per le vie di Edimburgo, come è costume da noi in Scozia. Ma io non c’ero. Il vuoto è stata la mia conclusione. Lo scrittore in famiglia, del resto, sono io.
Così, finite le cerimonie ed esaurite le sepolture, ricomparvi. Potevo finalmente adesso salpare gli ormeggi. Ma per dove? Dopo aver tanto atteso, una vaga eccitazione si impossessò di me, così vaga che non mi fece intravedere la rotta. I Mari del Sud non arrivarono subito, erano troppo lontani. Prima serviva l’incipit e l’incipit fu Manhattan, la prima della lunga serie di isole che avrebbero attraversato la mia esistenza frantumandola. Prima del salto. L’ultimo.
Lo avevo fatto in passato, negli Stati Uniti ero già venuto, ma questa volta era diverso. Perché questa era la volta per tutte, da cui non sarei mai più tornato indietro. L’irreversibilità cominciava a formularsi come valore unificante della mia esistenza. Ma questo ancora non potevo saperlo. E non sapevo neanche che l’assenza del mago non smorzava l’incantesimo. Se mio padre era stato l’ostacolo principale in cima a quell’atomo nascosto nella mia testa, con mio padre prima o poi sarei tornato a fare i conti. Anche se ormai da mero fantasma. New York mi parve un buon inizio per ricominciare ma solo un inizio.
Gli Stati Uniti furono la pedina decisiva nella mia scacchiera geografica. Non solo perché si trovavano esattamente a metà nella mappa del percorso che mi avrebbe poi portato nei Mari del Sud ma perché qui avvenne un fatto. In realtà ne avvennero molti. Ma uno solo riuscì ad isolarsi da tutti gli altri. Perché in apparenza il più insignificante. Si isolò per rimanere sullo sfondo ma si solidificò a tal punto da trasformare interamente la materia di tutti gli altri fatti che, invece, erano in primo piano, e della mia stessa anima. Posso affermare con certezza che i Mari del Sud ne divennero addirittura il suo corollario.
Ora, in quel fatto non c’era stato spargimento di sangue, né colore. Anzi tutti i colori erano sfumati via, come se ci avesse piovuto sopra per anni. Perfino le forme sembravano pronte a sparire, solo un colpo di pennello avrebbe potuto resuscitarle. E così fu. Ma il colpo vibrante fu sferzato qualche anno più tardi, a 10 mila km a est, a Tahiti in Polinesia francese. Da un pittore di nome Paul Gauguin. Che consegnò alla bellezza le forme più nascoste di quel fatto. Sopravvissuto a se stesso e ai personaggi di cui si era servito per esistere. A partire dal sottoscritto.
Si badi, non era stato quello un delitto, il sangue a New York si paga caro e non ripaga delle fatiche intraprese per raggiungere la città, però avrebbe permesso di capire il perché del mio omicidio a Samoa. E non era stato neanche un furto perché nulla venne tolto ma semmai molto aggiunto. Quel fatto, insomma, così difficile da descrivere e riprodurre avrebbe aiutato a comprendere molte cose. Tra cui il senso della mia traiettoria, da New York ai Mari del Sud e di quella più profonda, che nessuno vede.
MARIA
Dovevo andare sul K2. Faccio la reporter televisiva e può succedere. Invece, per un problema di diritti televisivi che, all’ultimo, mi hanno impedito di seguire la spedizione italiana nel cinquantesimo anniversario della presa della vetta, mi sono ritrovata su una nave cargo. Ma non era una nave qualsiasi e avrei dovuto capirlo dal nome: Aranui, che in taitiano significa “Grande Viaggio”. E il viaggio era alla lettera proprio grande perché mi avrebbe portato dall’altra parte del pianeta. In Polinesia, nel cuore dell’Oceano Pacifico, che da solo rappresenta 1/3 della superficie dell’intero pianeta.
Lì sarebbe accaduto qualcosa. I miei passi sulla sabbia avrebbero seguito le orme di un uomo che è vissuto più di cento anni fa. Un uomo che è stato 60 % scrittore, 40% avventuriero per sua stessa definizione: Robert Louis Stevenson. L’acqua, almeno in quella parte di mondo, non ha avuto il coraggio di cancellare le sue orme.
Il libro che ne è venuto fuori non è una dissertazione scientifica, non è una tesi di laurea, non è un saggio letterario. Non è neanche una guida turistica perché non propone alcun percorso anzi li mescola tutti. Ma non è neppure un romanzo né tantomeno uno yarn, cioè uno di quei racconti di marinai scivolati di bocca in bocca nelle navi e nelle taverne dei porti del Pacifico. Non è poesia.
Questo libro è piuttosto la cronaca fedele di uno strano incontro, di tre persone che
non si sono mai conosciute in un tempo che non esiste. Di questa apparente magia resta solo uno spazio, geografico. Quindi raffigurabile, nelle mappe come nella fantasia.
E', dunque, un libro d' avventura perché, fino alla fine tutto può succedere.
FANNY VANDEGRIFT
Sono la moglie di Louis, Fanny. Sono più grande di lui di almeno dieci anni. Almeno. Ma non ci tengo a dire di più. Accrescerebbe il solco della differenza mentre la nostra vita insieme è stata un tentativo continuo di farci uguali. Se il tentativo sia riuscito questo non posso dirlo. Alla sua morte mi sono messa con un altro, venticinque anni più giovane di me. Poi io sono morta e col mio amante ci si è messa mia figlia Belle. Proprio non posso dirlo, allora, se sia stato un tentativo riuscito. Con Luis di certo ci siamo inseguiti a vicenda e inseguendoci ci siamo allontanati. Succede quando a coincidere sono solo le rotte geografiche.
Volevo anche aggiungere un’altra cosa. Sono scura di pelle. Mi chiamano la gipsy, la gitana. Non nel nome ma nella mia pelle è scritto, dunque, il mio destino. Nomade, fino alla fine.
LLOYD OSBOURNE
Chi furono i miei genitori non riesco a dirlo. Fanny VandeGrift era mia madre ma Sam Osbourne mi fu padre solo biologicamente, Louis che invece arrivò dopo il divorzio divenne madre e padre. Insieme. Lo amai. Fanny a questo punto era di troppo.
ROBERT LOUIS STEVENSON
“Mr. Stevenson sailed for the United States with the intention of remaining here for some time a long time, possibly. The voyage seemed to do him so much good, however, that on the way over he resolved to linger in America but a short while, and then take ship for Japan”.
Questo scrisse la stampa di me una volta sbarcato negli Stati Uniti. Ma del Giappone non era vero nulla. Solo che al New York Critic uscito in edicola il 17 settembre 1887 quello che premeva era che uno dei più famosi scrittori della letteratura inglese del tempo, cioè io, fosse sbarcato in terra americana. Il resto erano supposizioni. Che cosa poi New York potesse rappresentare per me questo nessuno poteva dirlo. Un’alchimia che avrebbe restituito un uomo nuovo alla sua vita, una porta d’accesso ad altro, ogni ipotesi era percorribile.
Tre quadri riassumono l’iconografia di questo enigma. E le storie che si trascinano dietro e i personaggi che li hanno toccati per crearli o solo per possederli. Tutti trasformati in frammenti di una narrazione che per il momento parte da me e che con me finisce. I passaggi intermedi se ci sono adesso hanno finalmente l’opportunità di resuscitare. Ogni singolo fatto si farà così paradigma e permetterà di avvicinarsi a piccole dosi a quell’altro di fatto, quello sullo sfondo, per il quale ancora non esistono nè parolè né descrizioni. Tutto conduce lì. Se fosse un giallo questi sarebbero indizi.
JOHN SINGER SARGENT
I miei quadri. I miei tre quadri. Ma oggi, a disposizione degli studiosi, ne restano solo due. E il terzo?
Premetto che capitava spesso che in epoca vittoriana nelle famiglie borghesi e aristocratiche si commissionassero ritratti. Stevenson apparteneva di diritto alla categoria e per di più era scrittore, ad un certo punto della sua vita anche molto famoso non solo in Scozia e in Inghilterra ma in tutto il mondo. Ritrarlo era un piacere. Ma anche un dovere. Non si poteva tralasciare un personaggio del genere. No.
Lo ritrassi, dunque, tre volte.
Fu facile incontrarsi. Inevitabile. La mia mappa geografica esattamente inversa alla sua. Nato a Firenze, ero figlio di americani. E non mi sono mai sposato. Primo indizio. Mi fu attribuita, sì, una breve storia d’amore negli anni ’80 con una certa Louise Burkhardt, una svizzeroamericana che viveva a Parigi, ma quello che si mormorava, in Francia come a Londra, nei caffè letterari come nelle accademie era altro. Che non si lasciava dire ma solo sussurrare. Io amavo gli uomini. E intanto continuavo a dipingere e a viaggiare. Altre forme di amore. Secondo indizio.
Mi ero formato a Parigi all’Ecole des Beaux-Arts dove avevo stretto amicizia con Monet masticando la lingua dell’impressionismo ma fu la Gran Bretagna a consacrare il mio talento trasformandomi in uno degli artisti più famosi del tempo. I ritratti erano la forma d’arte che preferivo. Circoscrivere l’intera vita di una persona in una forma, raggelarla in un istante, un atto creativo obbediente per molti all’istinto di onnipotenza. Per me, invece, la categoria dei pittori era solo una porzione di umanità al servizio di se stessa. E del suo desiderio che nel dipingere trovava il perfetto compimento.
Nel corso della mia carriera la pennellata leggera e asciutta ha dato corpo a circa cinquecento ritratti. Cinquecento persone consegnate all’arte, salvate dall’oblio. Per Robert Louis Stevenson ci fu un’eccezione. Tre ritratti invece di uno. Uno dietro l’altro, uno conseguenza dell’altro. E qui gli indizi finiscono per lasciare spazio di nuovo alla narrazione.
MARIA
Quella rapida successione di quadri oggi non è più percorribile. Gli studiosi d’arte che intendano esaminare la triade sono costretti a cominciare tutti, infatti, dal secondo ritratto. Mai dal primo. Del primo addirittura sono in molti a tacere. Le parole come tomba. Per nascondere. Per uccidere. Qualcosa o qualcuno che, in realtà, è già morto. Partii da lì.
"Robert Louis Stevenson and His Wife," di John Singer Sargent, olio su tela
Fino al 2004 di questa tela si diceva poco o nulla. Era considerata, questo sì, un’opera di valore, tanto più che si trattava di uno dei pochissimi quadri raffiguranti lo scrittore in compagnia della moglie Fanny. E si sapeva anche che apparteneva alla già ricca collezione della famiglia Whitney, appassionata di Impressionismo ma anche di pittura americana. Nel 2004, però, succede qualcosa. Su questo ritratto si riaccendono di nuovo i riflettori, come se fosse arrivato il momento di tornare a parlare. Il quadro va all’asta da Christhie’s e le quotazioni partono altissime, tra i $5,000,000 e i $7,000,000. Alla fine viene aggiudicato per $8,800,000, non un dollaro di più, non un dollaro di meno. Quel quadro, comunque, li valeva tutti. Ma non pensava questo Steve Wynn quando vinse quell’asta. No. Pensava solo alla parete gialla del salone centrale al primo piano della sua lussuosa villa di Las Vegas. E a come appendere quella tela e a cosa togliere per farle spazio. Era un uomo pratico Steve, i suoi sessantaquattroanni a qualcosa gli erano serviti, i suoi natali nel Connecticut pure. Pratico, fin da giovane. Non credeva né negli atomi, né nei quanti, solo nei prodotti ultimi delle molecole. Le mani, le sue mani erano le uniche depositarie a suo avviso della verità. I quadri li comprava per toccarli, lui.
Toccare, toccare, anche la sua vita che pure ogni volta sembrava sfuggirgli. Toccare per trattenerla, per non disperdersi. Per scongiurare la morte che era invisibile. Intraprese un lungo percorso Steve per arrivare ai suoi quadri. Si arruolò giovanissimo in una antica Confraternita di ricchi ebrei, fondata nel 1909, la Sigma Alpha Mu, una specie di società segreta dove giovani e brillanti universitari che sognavano una Terra Promessa si davano una mano l’un con l’altro, facendo leva sui valori più profondi dell’ebraismo. Ma da sola la Confraternita non bastò. Per fare i soldi, unica prova tangibile secondo lui dell’essere in vita e esserlo adesso, serviva un salto. Le gambe erano disposte, arcuate ma pronte, solo che non aveva valutato l’ampiezza della distanza. Il mestiere che si inventò, insomma, poteva avere delle incognite. Eppure sembrava la gallina dalle uova d’oro, il “casino resort developer” era qualcuno che portava la civiltà nel deserto. O pressappoco. Dove non esistevano casinò ci pensava Steve a costruirli, creandogli poi il mondo intorno. E fece i soldi. E i soldi si moltiplicarono. La prova del suo essere in vita, sì la prova.
STEVE WYNN
Non sono mai sicuro della felicità. E anche se esistesse realmente l’oscillazione che questo sentimento comporta scombussola tutto rendendomi continuamente infelice. Hanno rapito mia figlia in un modo così rocambolesco che Hollywod a lei si è ispirata per il film “Ocean’s eleven”. La nostra infelicità, stampata per sempre sulla pellicola. I soldi però continuano ad agitarsi, mi chiamano, sembrano impazziti in gabbia. E io rendo loro la libertà perduta. Comprando quadri su quadri. Con un impulso animale ho acquistato “Giudecca, La donna della Salute e San Giorgio” di Turner. Ho sborsato 35.8 milioni di dollari. Ma le tele le tengo gelosamente per me, al massimo le espongo a rotazione nei miei casinò. Solo per me.
Poi c’è stato il tradimento. L’arte non mi ha protetto. L’arte che avevo comprato dissanguandomi mi ha tolto l’immunità. Sono finito ammalato di retinitis pigmentosa. Gli occhi hanno cominciato a dilatare le forme fino a perdere il centro del loro equilibrio e tutto il resto del corpo gli è andato dietro. E’ in quel momento che ho compreso che l’ asse di rotazione della mia persona risiedeva nello sguardo, non più nel tatto e che l’intero mio essere dipendeva da questo. Che la prova della mia esistenza non si fondava sulle mani ma più in alto, stampata come era sul volto. E, invece, mi restavano adesso solo le mani e i quadri. Forse, non avrei avuto molto tempo ancora da vivere.
Riuscii, però, a godermi l’ultima visione del quadro di Sargent. Appeso in uno dei miei casinò. Il lotto numero 10 di Christie’s. Me lo ricordo come se fossi ieri. Sudavo, nonostante la leva dell’aria condizionata fosse schiacciata al massimo e bevessi succo tropicale, ma non servì a molto. Ricordo ogni dettaglio. E ora che a causa della malattia non riesco più a distinguere le forme impresse sulla tela, mi resta l’immagine di essa, ridisegnatasi da sola nella mia testa.
MARIA
A dominare la scena nella composizione pittorica è lo scrittore. E’ in piedi ma sembra quasi voler sfuggire alla centralità che Sargent gli ha imposto. Tutto il suo esile corpo è ritratto di lato. Come se Stevenson stesse scappando dal quadro e dalla responsabilità cui il pittore, suo malgrado, lo aveva obbligato. E se lo scrittore scappa per lo spettatore resta solo la porta, aperta, e Fanny, ridotta a poco più di un’ombra, inerte, senza forma, mollemente sdraiata su una poltrona. Il suo corpo è talmente lontano dalla scena che non ce la fa ad entrare tutto nei confini della tela. Fanny e Louis sono separati nella postura, nelle direzioni degli sguardi, nella materia che compone i loro corpi, nelle pennellate. Fanny e Louis sono separati da una porta che dà su uno sfondo scuro e simbolico. Una scala. Che per scendere devi salire. Guardi il quadro e non sai bene perché ma in bocca ti resta questo: tutto separa Fanny e Louis. Sargent, che aveva conosciuto lo scrittore in Francia quando la coppia ancora non si era incontrata, questo volle ritrarre. Al di là dei corpi e delle posture. Questo e non un bacio appassionato, né una composizione tradizionale con una figura dietro l’altra.
JOHN SINGER SARGENT
Il quadro in questione è un olio su tela. L’ho dipinto nel 1885, non avevo ancora compiuto trent’ anni. Confesso che avevo cominciato a metterci mano un po’ prima, agli inizi del 1882 ma non lo raccontai in giro. Avevo vergogna di qualcosa che non capivo bene neanch’io dove mi portasse. Sono sempre stato timido per quanto riguarda quello che non conosco. Come se l’ignoranza fosse una colpa e avessi bisogno di tutta la vita per espiarne il peccato. E’ per questo che proprio in quegli anni me ne andai via da Parigi e da Londra. Volli sperimentare la quiete dell’arte illudendomi che bastasse il verde della campagna a rappresentarla. Ma solo l’arte può rappresentare quello che non si può descrivere e nulla può rappresentare l’arte se non se stessa. Come poteva mostrarsi calma, allora, e tranquilla? Mi ero, quindi, illuso. Compresi il concetto nella sua interezza all’interno della colonia di artisti di Broadway, nell’English Cotswolds, dove trascorsi qualche tempo. Incontrare altri pittori come me mandò in crisi il mio talento. L’immagine che essi rimandavano, infatti, frantumava la mia ispirazione quotidiana e lacerava l’ immaginazione. Scoprii di essere come loro. La mia mano rimase a lungo in silenzio. Robert Louis Stevenson arrivò in quel momento esatto della mia vita. Lo dipinsi, cercando di capire se quella tela sarebbe stata per me l’ultima. Ancora adesso mi chiedo se il ritratto dello scrittore con sua moglie fu espressione del mio tormento o un tentativo, estremo e privo di freni inibitori, per sfuggirvi.
Withney, il primo collezionista che lo ebbe fra le mani, evidentemente si era innamorato del quadro proprio per questo, per le domande che lasciava aperte e per l’inquietudine che lo teneva vivo. Ma era una verità che non voleva condividere con nessuno. Fintanto che rimase in suo possesso, l’opera non fu quasi mai prestata, neanche per mostre temporanee. Rimase per anni un affare riservato, tra un collezionista appassionato e ricchissimo e tre fantasmi, a partire da me.
ROBERT LOUIS STEVENSON
Non ricordo come fu che incontrai Sargent. Molto probabilmente attraverso Henry James, il mio amico scrittore o Bob mio cugino che aveva studiato pittura a Parigi con lui. Proprio non ricordo e mi chiedo ancora il perché di quest’oblio. Tantopiù che ero rimasto profondamente colpito dalla sua persona, come se la sua postura di vita fosse un modello per la mia. Era in realtà lui il modello, io il pittore. In ogni caso di me disse che fui la più intensa creatura che avesse mai incontrato.
Erano quelli gli anni più critici della mia esistenza e al tempo i più decisivi. Avevo da tempo superato la trentina ma non potevo più definirmi un trentenne. E i quaranta erano ancora dall’altra parte del fiume. Potevo allungare la mano questo sì, ma essi restavano ancora imprendibili. Non ero, come si direbbe oggi, né carne né pesce. Fu per questa ragione, forse, che ebbi all’improvviso successo e per giunta nel campo che avevo eletto a mia passione, cioè la letteratura. Ma non potevo considerarmi fortunato. Perché la fortuna, per come la immaginavo io, era altro. Costruzione, espansione della fantasia, dilatazione del sé. E invece io ero rattrappito in una smorfia. Il successo che venne a questo doveva servire, a tirarmi fuori dal guscio. Ma non sapeva che il guscio era parte di me, la gobba invisibile nella quale nascondendomi ritrovavo la pace.
L’Isola del Tesoro era piaciuta, ovunque si ristampavano copie. Anche di notte mi pareva di sentire il tremulo scalpitio delle rotative e l’odore delle pagine su cui l’inchiostro prendeva forma, duplicando all’infinito quel pensiero che aveva originato il racconto. Dr Jeckyll e Mr Hyde sarebbero arrivati dopo, dopo il quadro di Sargent, intendo, ma Sargent fu abilissimo. Vide prima di me quel guizzo che avrebbe generato la trama del mio libro. Lo vide in quella parte dei miei occhi compresa tra la pupille e il bianco. Io, invece, ancora non me ne ero accorto. Ero troppo preso dai miei disturbi respiratori, un’eccellente distrazione per allontanarsi da sé, almeno per un pò e prendersi una vacanza interiore. Quel quadro, dunque, mi aveva colpito.
MARIA
Mi chiesi, se anche Fanny avesse lasciato un commento e puntualmente lo trovai. In una lettera alla suocera Maggie faceva, infatti, riferimento alla tela ma aveva tutta l’aria di ingoiare un boccone amaro piuttosto che rallegrarsi di un’opera d’arte.
FANNY VANDEGRIFT
E’ delizioso, ma nell’aspetto è folle, dando a noi più valore di quanto abbiamo. Chiunque può avere “il ritratto di un gentiluomo” ma nessuno ne ha mai avuto uno come questo. E’ come una scatola aperta piena di gioielli.
MARIA
Una scatola di gioielli, folle, però, nell’aspetto. Era forse questa una metafora della sua vita di coppia o semplicemente l’immagine che di essa voleva dare? La scatola di gioielli, dunque, come cassaforte di famiglia, con dentro stipati ben bene ogni sorta di segreti?
“Robert Louis Stevenson and his wife”, insomma, sembrava non essere più solo un quadro ma qualcosa di più. Una crepa nell’immagine pubblica di una coppia ormai conosciuta in tutto il mondo. Una dichiarazione di guerra. Di Stevenson contro la moglie. Che Stevenson però non aveva il coraggio di muovere e che Sargent mosse per lui.
« Robert Louis Stevenson », di John Singer Sargent, olio su tela
E’ il terzo quadro che conferma il sospetto. Stavolta Fanny è completamente scomparsa. Resta lo scrittore, lo sguardo frontale, quasi più rilassato e rinfrancato dalla solitudine dell’ insieme. La tela fuga ogni dubbio. Stevenson è solo.
Il quadro venne dipinto, tra la tarda primavera e l’ inizio dell’ estate del 1887, sempre da Sargent, come gli altri due, e sempre nella residenza di Skerryvore a Barnemouth, di proprietà della famiglia di Robert Louis. Ma stavolta su commissione. Di un ricchissimo banchiere di Boston, Charles Fairchild che voleva farne dono a sua moglie Elizabeth, grande ammiratrice dello scrittore, con qualche velleità artistica perchè poetessa e creatrice di un piccolo e vivace salotto letterario. Fairchild visitò gli Stevenson in corso d’opera, nel giugno del 1887, era così che un tempo funzionavano i lavori su commissione, si seguivano appassionatamente da vicino, e invitò la coppia per il settembre di quello stesso anno negli Stati Uniti, tra Manhattan e Newport nel Rhode Island, dove possedeva un meraviglioso cottage. Quel quadro e quell’invito, ma lo scrittore scozzese allora non poteva immaginarlo, avrebbero dato al destino di Robert Louis Stevenson una via d’uscita. O forse l’avrebbero chiusa per sempre.
La tela, invece, una volta autonoma e indipendente dal suo soggetto, se ne sarebbe andata per la sua strada. Nel 1910 la signora Fairchild, fu costretta a disfarsene in seguito ad un rovesciamento economico. Nel 1922 il terzo quadro di John Singer Sargent raffigurante Robert Louis Stevenson finì nella collezione di Anna Sinton e Charles Phelps Taft, ribattezzato “Taft’s Stevenson Portrait” e ancora oggi può essere ammirato nell’omonimo museo di Cincinnati. Arte e vita, almeno in questo caso, fecero finta di non conoscersi.
Uno, due, tre. Dai cataloghi di Christie’s si apprendeva che la cronologia dei quadri di Sargent con Robert Louis Stevenson come oggetto finiva qui. Già, ma mancava il numero uno all’appello, per il quale la casa d’aste non aveva previsto neanche un lotto. Il primo quadro di John Singer Sargent che ritraeva Stevenson sembrava sparito nel nulla. In quell’assenza ogni significato era a questo punto ipotizzabile.
Intanto lo scrittore, insieme a sua moglie Fanny, era appena sbarcato a New York. Pronto a dirigersi al Victoria Hotel.
APPUNTI PER UN ROMANZO SULL'ARTICO E SULL'ANTARTIDE (DOVE SONO STATA)
Prima o poi l’estate arriverà.
E’ scritto nelle pagine dell’Artico. Quelle sepolte tra i ghiacci. Che si sono seduti e hanno dimenticato la loro storia. Ora vogliono guardare al futuro. E prima o poi l’estate farà capolino. Un piccolo cenno. Un dettaglio d’intesa. Come tra due amanti pronti alla scintilla.
Prima o poi l’estate arriverà e l’Artico si fingerà equatore scardinando la roccia e facendone fuoriuscire foreste lussureggianti. I ruscelli divoreranno il pack e si ricongiungeranno al mare. Il freddo muterà la sua direzione e sposerà la corrente riscaldandola con il suo sperma. I crepacci smetteranno di urlare e si piegheranno all’inseminazione, accogliendola.
Arriverà il tempo dei fiori. E l’Artico a forza di contemplare la mutazione perderà l’equilibrio. Sarà la fine del mondo. O forse no. Di certo l’inizio delle parole che seguono. Che sono molte. E forse, per la geografia di quei luoghi, troppe. Sentieri, dunque da percorrere in silenzio.
“Le acque divennero poderose e si innalzarono sempre più sopra la terra e ricoprirono tutti i monti più alti che sono sotto il cielo”
la Bibbia
Sono scampata al diluvio universale.
Sono scampata all’ira di Catilina e alla guerra del ’15-’18.
Sono scampata al terremoto dell’Irpinia e all’eruzione di Stromboli.
Sono scampata a tutto questo e ad altro ancora.
Per il mio compagno George sarei quella che nel senso comune delle parole viene definita una sopravvissuta. Ma alla lettera. Io sto sopra a tutto: alle nuvole, alle teste delle persone, ai loro pensieri. Anche quelli più cattivi. Ci cammino sopra. Come Cristo sulle acque.
Sarei una sopravvissuta, direbbe il mio compagno George. Se avessi un compagno di nome George. E invece non ho un compagno di nome Gorge e nemmeno un compagno.
Ma resto lo stesso una sopravvissuta.
A me stessa.
In principio era il mondo. E su di esso una montagna di rifiuti. Un gigantesco cucuzzolo sulla cui vetta frammenti di lattine riuscivano ad emanare un bagliore primordiale: la prima alba del primo giorno di vita del pianeta.
Bucce di legumi, riso avariato, pacchi di giornali, bottiglie di plastica rese marce dalla contaminazione con schegge di piccole otri di birra, gusci d’uovo in virulenta decomposizione, chiodi per croci mai realizzate e solo desiderate, sacchi di nylon con e senza buchi, frigoriferi ammaccati, radioline e televisori ridotti ad inerti ammassi di valvole. Perfino ruote d’automobile. Come se da quel posto si potesse minimamente pensare di allontanarsi.
Anch’io sono un rifiuto. Ma non perché per guadagnarmi il pane quotidiano faccio di mestiere la guardiana della discarica e a forza di vederne di rifiuti io lo sia diventata per assimilazione. Sono un rifiuto perché tutti potenzialmente lo siamo. Io lo sono in atto.
Prendete una scatola di pelati, tre euro nel migliore supermercato della città. Così lucida e invogliante che la mangeresti tutta, insieme ai pelati che ci sono dentro. Tiri fuori i soldi dal borsellino. Paghi in contanti come tutte le cose che vuoi possedere con una certa intensità. Prendi l’autobus, scendi ad un Km da casa, te la fai a piedi per quel che ti resta di strada, arrivi in cucina tutta trafelata e sudata, ti prepari, infine, da mangiare. Senza quella scatola tu non potresti vivere. Nel senso biologico del termine. Mangiare per camminare, per pensare, per fare l’amore, per defecare. E’ nel momento in cui la lattina viene aperta che si compie il miracolo. Ma un miracolo al contrario. Solo che siccome non esiste la parola per esprimerlo resta un miracolo al contrario e basta.
Da quel preciso momento la lattina non serve più. Dopo aver assolto la nobile funzione di trasportare il Bello, il Buono, il Giusto comincia per lei un lungo viaggio alla rovescia. Da merce si trasforma in rifiuto. Mescolata agli odori della pattumiera smarrisce così i suoi confini. Perde valore. Per averne troppo avuto. La soluzione è una sola: allontanata. Come un bambino quando viene sbattuto in castigo. Allontanata. Magari riciclata. Che fa benissimo all’ambiente ma per una lattina è veramente umiliante.
Non chiedetemi perché io sia un rifiuto in atto. Non è importante. Lo sono e basta.
E vi assicuro che non è facile.
Patri, Fiddi e Spiriti Santi che tradotto dal siciliano all’italiano suona più o meno così: Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Lo ripeteva sempre mia nonna. Padre, Figlio e Spirito Santo. Ma io, in realtà, mi chiamavo Maria e il mio nome a quella triade aveva finito solo per creare un gran mucchio di problemi. Giustificava i tre ma nessuno, poi, si era preso la briga di una pur minima citazione.
Il mio nome era uno scandalo. Sarei finita con il diventarlo anch’io perché al proprio nome, anche se uno non se ne accorge, si obbedisce soltanto. Piegando ad esso l’intero destino.
Io ero uno scandalo. Il mio nome era uno scandalo.
Mio padre la notte stessa del battesimo vomitò. “Intossicazione alimentare”. L’episodio fu archiviato così. Ma dei trenta commensali che parteciparono al lauto banchetto fu l’unico a rimettere. Le cose, allora, erano due. O era un uomo molto fortunato (chi rimette si libera subito) oppure c’era dell’altro. Il mio nome era uno scandalo. Io sarei stata quella che ero: uno scandalo. Da qualcosa, dunque, bisognava pur cominciare.
Voltare pagina. Anzi, se possibile, cambiare quaderno. Ma non tutto si può dire. E’ il segreto di ogni scrittura capace di lasciare un segno. Anche solo un segno scritto. Quindi non aveva senso neppure prenderla in considerazione l’idea di voltare pagina. Niente pagina, dunque, niente quaderno. Solo un movimento dell’anima. Né un istinto né un desiderio. Un semplice movimento. Impercettibile come i gargarismi del ventre che in silenzio mantengono il ventre vivo ed elastico.
Andare in Antartide.
Voglio andare in Antartide.
Voglio, voglio, voglio. Punto. Il perché non è importante. Il perché è una somma. Mi tocca contare di nuovo. Aggiungere, sottrarre, ancora aggiungere. Ma è un calcolo algebrico che non trovando soluzione chiede aiuto alla geometria. In alto mare. Sono di nuovo in alto mare. E il mare è aperto.
Voglio andare in Antartide perché è l’Atlantide che ho sempre cercato. E non avendola trovata credo sia tutto un equivoco.
Voglio andare in Antartide perché sono contaminata. Ho bisogno di disintossicarmi. Ho bisogno del bianco. Magari sortisco l’effetto contrario. Ma voglio. Lo stesso.
Voglio l’Antartide per non provare più né caldo né freddo.
Per sentire i miei confini e una volta toccati vederli evaporare, come gli affreschi antichi al primo impatto con la luce moderna.
Perché nel cuore dell’Antartide l’acqua allo stato liquido non esiste. Se c’è devi scavare e in profondità. Quindi fai prima ad immaginartela.
Voglio andare in Antartide per rannicchiarmi una volta per tutte nel palmo della mano di mia madre e schiacciare finalmente un pisolino. E poi lì non c’è l’asfalto.
L’Antartide è il mio esercizio di stile. Il più importante. Il termoregolatore delle mie azioni quotidiane. Per arrivarci le prove che dovrò superare faranno di tutto per ostacolarmi. Non basterà il mio passato di ricercatrice né tantomeno quello di contaminata. Non basterà il lungo viaggio a bordo della Polarstern né tutte le facce che si sono sovrapposte nel corso di queste mie lunghe peregrinazioni. Non basterà. Dovrò fare appello a forze più lontane. Echi rimasti sordi dentro di me. Non so se sia una ginnastica adatta ad una donna di 31 anni. Ma so che non posso fare a meno di muovermi in questa direzione.
Se vorranno le onde sapranno condurmi. Devo solo lasciare che sia.
E’ scritto nelle pagine dell’Artico. Quelle sepolte tra i ghiacci. Che si sono seduti e hanno dimenticato la loro storia. Ora vogliono guardare al futuro. E prima o poi l’estate farà capolino. Un piccolo cenno. Un dettaglio d’intesa. Come tra due amanti pronti alla scintilla.
Prima o poi l’estate arriverà e l’Artico si fingerà equatore scardinando la roccia e facendone fuoriuscire foreste lussureggianti. I ruscelli divoreranno il pack e si ricongiungeranno al mare. Il freddo muterà la sua direzione e sposerà la corrente riscaldandola con il suo sperma. I crepacci smetteranno di urlare e si piegheranno all’inseminazione, accogliendola.
Arriverà il tempo dei fiori. E l’Artico a forza di contemplare la mutazione perderà l’equilibrio. Sarà la fine del mondo. O forse no. Di certo l’inizio delle parole che seguono. Che sono molte. E forse, per la geografia di quei luoghi, troppe. Sentieri, dunque da percorrere in silenzio.
“Le acque divennero poderose e si innalzarono sempre più sopra la terra e ricoprirono tutti i monti più alti che sono sotto il cielo”
la Bibbia
Sono scampata al diluvio universale.
Sono scampata all’ira di Catilina e alla guerra del ’15-’18.
Sono scampata al terremoto dell’Irpinia e all’eruzione di Stromboli.
Sono scampata a tutto questo e ad altro ancora.
Per il mio compagno George sarei quella che nel senso comune delle parole viene definita una sopravvissuta. Ma alla lettera. Io sto sopra a tutto: alle nuvole, alle teste delle persone, ai loro pensieri. Anche quelli più cattivi. Ci cammino sopra. Come Cristo sulle acque.
Sarei una sopravvissuta, direbbe il mio compagno George. Se avessi un compagno di nome George. E invece non ho un compagno di nome Gorge e nemmeno un compagno.
Ma resto lo stesso una sopravvissuta.
A me stessa.
In principio era il mondo. E su di esso una montagna di rifiuti. Un gigantesco cucuzzolo sulla cui vetta frammenti di lattine riuscivano ad emanare un bagliore primordiale: la prima alba del primo giorno di vita del pianeta.
Bucce di legumi, riso avariato, pacchi di giornali, bottiglie di plastica rese marce dalla contaminazione con schegge di piccole otri di birra, gusci d’uovo in virulenta decomposizione, chiodi per croci mai realizzate e solo desiderate, sacchi di nylon con e senza buchi, frigoriferi ammaccati, radioline e televisori ridotti ad inerti ammassi di valvole. Perfino ruote d’automobile. Come se da quel posto si potesse minimamente pensare di allontanarsi.
Anch’io sono un rifiuto. Ma non perché per guadagnarmi il pane quotidiano faccio di mestiere la guardiana della discarica e a forza di vederne di rifiuti io lo sia diventata per assimilazione. Sono un rifiuto perché tutti potenzialmente lo siamo. Io lo sono in atto.
Prendete una scatola di pelati, tre euro nel migliore supermercato della città. Così lucida e invogliante che la mangeresti tutta, insieme ai pelati che ci sono dentro. Tiri fuori i soldi dal borsellino. Paghi in contanti come tutte le cose che vuoi possedere con una certa intensità. Prendi l’autobus, scendi ad un Km da casa, te la fai a piedi per quel che ti resta di strada, arrivi in cucina tutta trafelata e sudata, ti prepari, infine, da mangiare. Senza quella scatola tu non potresti vivere. Nel senso biologico del termine. Mangiare per camminare, per pensare, per fare l’amore, per defecare. E’ nel momento in cui la lattina viene aperta che si compie il miracolo. Ma un miracolo al contrario. Solo che siccome non esiste la parola per esprimerlo resta un miracolo al contrario e basta.
Da quel preciso momento la lattina non serve più. Dopo aver assolto la nobile funzione di trasportare il Bello, il Buono, il Giusto comincia per lei un lungo viaggio alla rovescia. Da merce si trasforma in rifiuto. Mescolata agli odori della pattumiera smarrisce così i suoi confini. Perde valore. Per averne troppo avuto. La soluzione è una sola: allontanata. Come un bambino quando viene sbattuto in castigo. Allontanata. Magari riciclata. Che fa benissimo all’ambiente ma per una lattina è veramente umiliante.
Non chiedetemi perché io sia un rifiuto in atto. Non è importante. Lo sono e basta.
E vi assicuro che non è facile.
Patri, Fiddi e Spiriti Santi che tradotto dal siciliano all’italiano suona più o meno così: Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Lo ripeteva sempre mia nonna. Padre, Figlio e Spirito Santo. Ma io, in realtà, mi chiamavo Maria e il mio nome a quella triade aveva finito solo per creare un gran mucchio di problemi. Giustificava i tre ma nessuno, poi, si era preso la briga di una pur minima citazione.
Il mio nome era uno scandalo. Sarei finita con il diventarlo anch’io perché al proprio nome, anche se uno non se ne accorge, si obbedisce soltanto. Piegando ad esso l’intero destino.
Io ero uno scandalo. Il mio nome era uno scandalo.
Mio padre la notte stessa del battesimo vomitò. “Intossicazione alimentare”. L’episodio fu archiviato così. Ma dei trenta commensali che parteciparono al lauto banchetto fu l’unico a rimettere. Le cose, allora, erano due. O era un uomo molto fortunato (chi rimette si libera subito) oppure c’era dell’altro. Il mio nome era uno scandalo. Io sarei stata quella che ero: uno scandalo. Da qualcosa, dunque, bisognava pur cominciare.
Voltare pagina. Anzi, se possibile, cambiare quaderno. Ma non tutto si può dire. E’ il segreto di ogni scrittura capace di lasciare un segno. Anche solo un segno scritto. Quindi non aveva senso neppure prenderla in considerazione l’idea di voltare pagina. Niente pagina, dunque, niente quaderno. Solo un movimento dell’anima. Né un istinto né un desiderio. Un semplice movimento. Impercettibile come i gargarismi del ventre che in silenzio mantengono il ventre vivo ed elastico.
Andare in Antartide.
Voglio andare in Antartide.
Voglio, voglio, voglio. Punto. Il perché non è importante. Il perché è una somma. Mi tocca contare di nuovo. Aggiungere, sottrarre, ancora aggiungere. Ma è un calcolo algebrico che non trovando soluzione chiede aiuto alla geometria. In alto mare. Sono di nuovo in alto mare. E il mare è aperto.
Voglio andare in Antartide perché è l’Atlantide che ho sempre cercato. E non avendola trovata credo sia tutto un equivoco.
Voglio andare in Antartide perché sono contaminata. Ho bisogno di disintossicarmi. Ho bisogno del bianco. Magari sortisco l’effetto contrario. Ma voglio. Lo stesso.
Voglio l’Antartide per non provare più né caldo né freddo.
Per sentire i miei confini e una volta toccati vederli evaporare, come gli affreschi antichi al primo impatto con la luce moderna.
Perché nel cuore dell’Antartide l’acqua allo stato liquido non esiste. Se c’è devi scavare e in profondità. Quindi fai prima ad immaginartela.
Voglio andare in Antartide per rannicchiarmi una volta per tutte nel palmo della mano di mia madre e schiacciare finalmente un pisolino. E poi lì non c’è l’asfalto.
L’Antartide è il mio esercizio di stile. Il più importante. Il termoregolatore delle mie azioni quotidiane. Per arrivarci le prove che dovrò superare faranno di tutto per ostacolarmi. Non basterà il mio passato di ricercatrice né tantomeno quello di contaminata. Non basterà il lungo viaggio a bordo della Polarstern né tutte le facce che si sono sovrapposte nel corso di queste mie lunghe peregrinazioni. Non basterà. Dovrò fare appello a forze più lontane. Echi rimasti sordi dentro di me. Non so se sia una ginnastica adatta ad una donna di 31 anni. Ma so che non posso fare a meno di muovermi in questa direzione.
Se vorranno le onde sapranno condurmi. Devo solo lasciare che sia.
IL BUCO DENTRO
Il buco dentro è il diario di una giovane donna che vive a New York ma che è di origine italiana e che soffre di vaginismo. Cercando di scoprire le radici del suo problema ritrova le radici della sua famiglia italiana e i misteri che ha tenuto nascosti per un secolo
IL BUCO DENTRO
di Maria Zuppello
Questo libro non è dedicato a qualcuno in particolare.
Né a qualcosa.
Solo all’aria.
E a tutti i grumi di polline che ha seminato sul mio cammino.
Se i libri si potessero scrivere non più su carta ma su cubi di plastica questo libro troverebbe la sua giusta collocazione. E la sua corretta modalità di lettura.
Un cubo è un volume tra i volumi, occupa uno spazio, modifica il percorso dell’aria. C’è e la sua presenza non si può negare. E richiede per la sua pesantezza validi argomenti di conversazione.
Se “Il buco dentro” fosse pubblicato su un cubo tutte le voci in gioco troverebbero appropriata la loro altezza e l’angolatura del loro ripiano. Ma riportato su carta perde ogni dimensione richiedendo al lettore uno sforzo supplementare. Per agevolare il quale diremo solo che le parti indicate in corsivo non sono la voce di Dio ma quella di uno qualsiasi di noi, di un passante di New York che passando attraversa, i luoghi come le persone e le storie che gli vengono incontro. Non è dunque dal cielo che si parla ma dai marciapiedi della città, tra i più flautolenti. Non c’è nessuna prospettiva più alta ma tutte le voci scorrono parallele fra loro. E se qualcuna vede più di altre è solo per intuizione che da che uomo è uomo è sempre solo un’inizio e mai una conclusione. I personaggi che attraversano questo libro parlano dunque dalla stessa altezza ma vedono cose molto diverse. Mistero dello sguardo e delle lenti a contatto. Che di questi tempi fanno veramente miracoli.
Gli enzimi erano quelli. E non ci si poteva fare nulla. Enzimi digestivi capaci di ospitare nel proprio intestino Protozoi Flagellati Simbionti. Tutti insieme se la divertivano. Uno spasso inesauribile. Eppure i tarli sono minuscoli. Eppure il legno a disposizione era poco.
Xilofagi. E se non bastava anche corticicoli-lignicoli Con larve che si nutrono di floema e che al momento dell’impupamento scavano nello xilema gallerie a diversa profondità.
Ma ci avete capito qualcosa? Io francamente no. Il mio cuore si arresta davanti a queste parole. E con il cuore anche il respiro. Per un medico sarei già morta E, invece, dormivo soltanto. Ignara perché quando si dorme si fa finta di dimenticare. Almeno per qualche ora. Nell’altra stanza. Nella mia camera da letto. Nel mio letto. Sotto le mie coltri.
Distante, dunque.
Il mobile è arrivato stamattina. 23 minuti i facchini ci hanno messo per portarmelo in casa, comprese le operazioni di carico e eliminazione dell’imballaggio. Non un colpo e via. 23 minuti. E disimballarlo è stato un po’ come trovarsi nel pieno di un’operazione chirurgica. Levare, levare, levare. Fino ad arrivare al cuore, dentro. Ma lì scopri che c’è solo un buco. Noi siamo buchi. Anche il mio mobile era pieno di buchi. Questo, però, l’ho saputo solo dopo. Di notte mentre dormivo nell’altra stanza, l’ingresso rettangolare 3, 27 per 2,15, dentro l’ingresso, dentro il mobile nell’ingresso, 725 tarli avrebbero scavato km di gallerie. Una città sotterranea. Dentro ad un mobile, il mio mobile.
E’ alto 1m e 20, largo 70 cm, profondo 25. E’ verde. Ma un verde che non ricorda né l’acqua né le finestre.E infatti non è il suo colore originale Il mobile è antico, vecchio, a seconda del modo in cui lo si guarda e dell’occhio. Se si portano le lenti a contatto o no fa la differenza. Risale alla fine dell’800. Ma a me sembra nuovo, nuovissimo, anzi a volte ho la sensazione che sia un bambino che deve ancora nascere. Io lo aspetto sempre, lo aspetto quando torno a casa. Eppure dovrebbe essere il contrario, lui che è a casa a dover aspettare me. E invece non è così perché io non sono il Figliol Prodigo, non lo sono mai stata, mai lo sarò. E quindi non torno mai. Sto. Anche quando vado. Sto. Ma a me va bene così.
Il mobile è’ di provenienza francese. Solo in Francia li facevano così. Debbo crederci. Io di mobili antichi non capisco proprio nulla. Ma a me quel mobile ha fatto venire da subito il nodo alla gola. Forse abbiamo dei conti in sospeso. Io e la Francia o io e il mobile, questo ancora non l’ho capito.
Il mobile proviene dalla casa di mio nonno materno. Una grande casa nell’Italia del Sud, in basilicata, che oggi si definirebbe di campagna ma che un tempo a chi ci abitava pareva eretta al centro dell’Universo. Era appartenuto alla mia bisnonna, Florinda Mazziotta, morta di spagnola nel 1918 all’età di 44 anni.
Dentro al mobile non c’è nulla. Adesso, per lo meno. Nel passato deve essere stato usato come madia, conteneva servizi preziosi e cristalli raffinati. O almeno, questa è l’idea che mi sono fatta io. Il passato è bello per questo. Che è passato e quindi te lo puoi immaginare.
Io immagino molto. Anche nel presente. Che finisce sempre con il diventare il mio futuro e quindi è sempre lontano. Fantastico in metrò, al lavoro, perfino quando guardo un film. Le mie immagini cancellano di getto tutte le altre. Divento Dio e creo il mondo a mia immagine e somiglianza. Immagino sempre, per la mia creazione non c’è battuta d’arresto. Non ho bisogno del giorno di riposo, io.
Immaginando riempio i buchi. I miei tarli scavano buchi nel mobile (ma ancora non lo so). Io, invece, i buchi li riempio.
Soffro di vaginismo dall’età di 4 anni e mezzo. Ma me ne sono accorta molto tempo dopo. Succede sempre così con il vaginismo. Lo covi per anni quando neanche sai cosa vuol dire e poi te lo ritrovi dentro fra le pieghe delle tue viscere. Non ti abbandona mai. Come Dio per chi ci crede.
Io in Dio non ci credo. Sulla sua esistenza, voglio dire. Semmai è un problema suo se esiste o meno. Io di problemi al momento ne ho già tanti. Così tanti che si parano davanti come muri. E io ci sono chiusa dentro. Dentro devo ripensare al passato. Ma non devo immaginarlo, stavolta, devo pensarlo. E’ quello che mi dice Melanie ma ancora non ho capito bene la differenza. Comunque io a Melanie ci credo. Non credo in Dio ma a Melanie si. Melanie è una persona. E’ la mia terapista. E’ una donna bellissima. Non è bellissima perché è la mia terapista. Ma è la mia terapista perché è bellissima. Ho sempre pensato che le persone molto belle dovrebbero condurre il mondo, deciderne le linee guida, ribaltarlo. E noi dietro a loro. Melanie è bellissima perché tutte le parti che la compongono insieme stanno benissimo. Hanno un loro perché e non hai più bisogno di farti domande te, che le guardi, te che la guardi.
Sono in cura da 4 mesi. Se ripenso al giorno in cui ho deciso di andare da Melanie non mi viene in mente nulla: né pensieri, né immaginazioni. Solo un buco, un buco dentro. Che poi si è trasformato in galleria. Che poi mi ha fatto veder una luce. Lo studio di Melanie è in fondo ad un grande stradone, dove neppure la metro arriva. Devo fare 25 minuti a piedi, 23’38 se l’unico semaforo che trovo sul cammino è completamente verde. Ho cronometrato tutto. Fin dall’inizio. Per non perdermi, per ritrovare la strada. Questa è l’unica cosa che mi ricordo. E questo buco, ripeto. Te lo senti sullo stomaco, il buco, se proprio devo localizzarlo. Melanie ha a che fare con questo buco, riempie i buchi Melanie, per professione. Al contrario dei tarli del mio mobile. Ma io ancora non mi sono accorta di nulla (...)
IL BUCO DENTRO
di Maria Zuppello
Questo libro non è dedicato a qualcuno in particolare.
Né a qualcosa.
Solo all’aria.
E a tutti i grumi di polline che ha seminato sul mio cammino.
Se i libri si potessero scrivere non più su carta ma su cubi di plastica questo libro troverebbe la sua giusta collocazione. E la sua corretta modalità di lettura.
Un cubo è un volume tra i volumi, occupa uno spazio, modifica il percorso dell’aria. C’è e la sua presenza non si può negare. E richiede per la sua pesantezza validi argomenti di conversazione.
Se “Il buco dentro” fosse pubblicato su un cubo tutte le voci in gioco troverebbero appropriata la loro altezza e l’angolatura del loro ripiano. Ma riportato su carta perde ogni dimensione richiedendo al lettore uno sforzo supplementare. Per agevolare il quale diremo solo che le parti indicate in corsivo non sono la voce di Dio ma quella di uno qualsiasi di noi, di un passante di New York che passando attraversa, i luoghi come le persone e le storie che gli vengono incontro. Non è dunque dal cielo che si parla ma dai marciapiedi della città, tra i più flautolenti. Non c’è nessuna prospettiva più alta ma tutte le voci scorrono parallele fra loro. E se qualcuna vede più di altre è solo per intuizione che da che uomo è uomo è sempre solo un’inizio e mai una conclusione. I personaggi che attraversano questo libro parlano dunque dalla stessa altezza ma vedono cose molto diverse. Mistero dello sguardo e delle lenti a contatto. Che di questi tempi fanno veramente miracoli.
Gli enzimi erano quelli. E non ci si poteva fare nulla. Enzimi digestivi capaci di ospitare nel proprio intestino Protozoi Flagellati Simbionti. Tutti insieme se la divertivano. Uno spasso inesauribile. Eppure i tarli sono minuscoli. Eppure il legno a disposizione era poco.
Xilofagi. E se non bastava anche corticicoli-lignicoli Con larve che si nutrono di floema e che al momento dell’impupamento scavano nello xilema gallerie a diversa profondità.
Ma ci avete capito qualcosa? Io francamente no. Il mio cuore si arresta davanti a queste parole. E con il cuore anche il respiro. Per un medico sarei già morta E, invece, dormivo soltanto. Ignara perché quando si dorme si fa finta di dimenticare. Almeno per qualche ora. Nell’altra stanza. Nella mia camera da letto. Nel mio letto. Sotto le mie coltri.
Distante, dunque.
Il mobile è arrivato stamattina. 23 minuti i facchini ci hanno messo per portarmelo in casa, comprese le operazioni di carico e eliminazione dell’imballaggio. Non un colpo e via. 23 minuti. E disimballarlo è stato un po’ come trovarsi nel pieno di un’operazione chirurgica. Levare, levare, levare. Fino ad arrivare al cuore, dentro. Ma lì scopri che c’è solo un buco. Noi siamo buchi. Anche il mio mobile era pieno di buchi. Questo, però, l’ho saputo solo dopo. Di notte mentre dormivo nell’altra stanza, l’ingresso rettangolare 3, 27 per 2,15, dentro l’ingresso, dentro il mobile nell’ingresso, 725 tarli avrebbero scavato km di gallerie. Una città sotterranea. Dentro ad un mobile, il mio mobile.
E’ alto 1m e 20, largo 70 cm, profondo 25. E’ verde. Ma un verde che non ricorda né l’acqua né le finestre.E infatti non è il suo colore originale Il mobile è antico, vecchio, a seconda del modo in cui lo si guarda e dell’occhio. Se si portano le lenti a contatto o no fa la differenza. Risale alla fine dell’800. Ma a me sembra nuovo, nuovissimo, anzi a volte ho la sensazione che sia un bambino che deve ancora nascere. Io lo aspetto sempre, lo aspetto quando torno a casa. Eppure dovrebbe essere il contrario, lui che è a casa a dover aspettare me. E invece non è così perché io non sono il Figliol Prodigo, non lo sono mai stata, mai lo sarò. E quindi non torno mai. Sto. Anche quando vado. Sto. Ma a me va bene così.
Il mobile è’ di provenienza francese. Solo in Francia li facevano così. Debbo crederci. Io di mobili antichi non capisco proprio nulla. Ma a me quel mobile ha fatto venire da subito il nodo alla gola. Forse abbiamo dei conti in sospeso. Io e la Francia o io e il mobile, questo ancora non l’ho capito.
Il mobile proviene dalla casa di mio nonno materno. Una grande casa nell’Italia del Sud, in basilicata, che oggi si definirebbe di campagna ma che un tempo a chi ci abitava pareva eretta al centro dell’Universo. Era appartenuto alla mia bisnonna, Florinda Mazziotta, morta di spagnola nel 1918 all’età di 44 anni.
Dentro al mobile non c’è nulla. Adesso, per lo meno. Nel passato deve essere stato usato come madia, conteneva servizi preziosi e cristalli raffinati. O almeno, questa è l’idea che mi sono fatta io. Il passato è bello per questo. Che è passato e quindi te lo puoi immaginare.
Io immagino molto. Anche nel presente. Che finisce sempre con il diventare il mio futuro e quindi è sempre lontano. Fantastico in metrò, al lavoro, perfino quando guardo un film. Le mie immagini cancellano di getto tutte le altre. Divento Dio e creo il mondo a mia immagine e somiglianza. Immagino sempre, per la mia creazione non c’è battuta d’arresto. Non ho bisogno del giorno di riposo, io.
Immaginando riempio i buchi. I miei tarli scavano buchi nel mobile (ma ancora non lo so). Io, invece, i buchi li riempio.
Soffro di vaginismo dall’età di 4 anni e mezzo. Ma me ne sono accorta molto tempo dopo. Succede sempre così con il vaginismo. Lo covi per anni quando neanche sai cosa vuol dire e poi te lo ritrovi dentro fra le pieghe delle tue viscere. Non ti abbandona mai. Come Dio per chi ci crede.
Io in Dio non ci credo. Sulla sua esistenza, voglio dire. Semmai è un problema suo se esiste o meno. Io di problemi al momento ne ho già tanti. Così tanti che si parano davanti come muri. E io ci sono chiusa dentro. Dentro devo ripensare al passato. Ma non devo immaginarlo, stavolta, devo pensarlo. E’ quello che mi dice Melanie ma ancora non ho capito bene la differenza. Comunque io a Melanie ci credo. Non credo in Dio ma a Melanie si. Melanie è una persona. E’ la mia terapista. E’ una donna bellissima. Non è bellissima perché è la mia terapista. Ma è la mia terapista perché è bellissima. Ho sempre pensato che le persone molto belle dovrebbero condurre il mondo, deciderne le linee guida, ribaltarlo. E noi dietro a loro. Melanie è bellissima perché tutte le parti che la compongono insieme stanno benissimo. Hanno un loro perché e non hai più bisogno di farti domande te, che le guardi, te che la guardi.
Sono in cura da 4 mesi. Se ripenso al giorno in cui ho deciso di andare da Melanie non mi viene in mente nulla: né pensieri, né immaginazioni. Solo un buco, un buco dentro. Che poi si è trasformato in galleria. Che poi mi ha fatto veder una luce. Lo studio di Melanie è in fondo ad un grande stradone, dove neppure la metro arriva. Devo fare 25 minuti a piedi, 23’38 se l’unico semaforo che trovo sul cammino è completamente verde. Ho cronometrato tutto. Fin dall’inizio. Per non perdermi, per ritrovare la strada. Questa è l’unica cosa che mi ricordo. E questo buco, ripeto. Te lo senti sullo stomaco, il buco, se proprio devo localizzarlo. Melanie ha a che fare con questo buco, riempie i buchi Melanie, per professione. Al contrario dei tarli del mio mobile. Ma io ancora non mi sono accorta di nulla (...)
ZENITH 1
Zenith è un romanzo ambientato nella National Gallery di Washington nelle cui toilettes la protagonista rimane chiusa per sbaglio. Da qui un viaggio notturno in quello che è uno dei musei più ricchi e del mondo con i personaggi di alcune tele che sgattaiolano dai quadri per seguire una loro storia che si intreccia con quella della protagonista.
ZENITH
di Maria Zuppello
Figlio,
mia carne fatta,
fisso il tuo volto
e vengo ai sogni antichi.
Cammina nella palude
Pronto al guado,
giusto e forte
come è dovuto.
E’ tutto.
Lascia la mia mano
e vai
Versi di mia madre.
Scritti pensando a ciò che sarebbe venuto dopo.
Cioè io.
A lei, dunque, dedico questa prima pagina. E tutte quelle che seguono.
INTRODUZIONE N.1
Voi non potete saperlo ma vi assicuro: comincio a scrivere questo libro a penna. Una penna biro. Di quelle che tutti, con meno di un euro, possiamo trovare al bar o in tabaccheria o rubare al collega in ufficio. Sempre che si abbia un ufficio. Uno strumento a portata di mano, di tutte le mani. La penna l’ho strappata al disordine della mia borsetta, il blocco, invece, è un regalo di compleanno di un mio amico gravemente ammalato di miopia. E perfino astigmatico.
Ho scelto un punto preciso della mia casa da trasformare nel recinto sacro. Dove nasce, per mai più morire, il letto del fiume. E’ un punto duro. E’ un angolo. Strano destino quello degli angoli. Godono di misure che gli sono loro proprie e che solo a loro appartengono. Sposano il vuoto e spesso sono costretti a fissarlo per una vita intera. Ma sopravvivono. A molte catastrofi. Al quotidiano. Alle lotte, ai fratricidi, ai piccoli grandi delitti che si consumano in ogni città, ad ogni latitudine, dentro le case di tutti. Gli angoli delle case tengono in piedi il ring, delimitano il tempio, ricusano i colpi del tempo e dello spazio. Sono geometrie allo stato puro.
Non posso stare in piedi, però, anche se mi piacerebbe da impazzire scrivere un intero romanzo in piedi. Un modo originale di interpretare la precarietà? Non posso stare in piedi perché sento che questo lavoro mi impegnerà a lungo. Con continuità. Il posto fisso che ho sempre sognato!
Ma vorrei immaginarmi così. Come uno spaventapasseri. Che allontana le ombre cattive e protegge il raccolto, accrescendo la fecondità del campo.
E’ l’angolo sud-est della casa che diventerà il punto su cui ergerò il mio piedistallo di scrittrice in cerca di ispirazione. Punto di mera geometria. Una durissima onda di canne orientali compone la mia chaise longue. Dura ma comoda. Per tenere sempre vivi e appuntiti i miei pensieri. In perenne stato di allerta. I miei pensieri. Ogni tanto mi guardano da lontano. Ogni tanto mi sovrastano. Talvolta addirittura paiono dilegiarmi.
Sono in cerca di una storia. Ma la storia in realtà c’è già. Faccio finta di illudermi ma so che non è vero. Io intanto aspetto. L’attesa riempie sempre. Aspetto che la storia venga a me, che si lasci bramare, che si dipani davanti ai miei occhi e mi prenda per mano gettandomi nelle braccia dure dei miei personaggi.
Oggi è il 18 maggio 2002. E’ Domenica pomeriggio. E per scrivere un’introduzione è il giorno ideale. Questo giorno della settimana, per lo meno fino a poco prima del tramonto, non riesce ad uccidere il senso dell’attesa che di ogni buona introduzione è il signore incontrastato. Se dopo queste righe troverete una storia vorrà dire che la chaise longue ha compiuto il suo dovere.
INTRODUZIONE N.2
Devo riabituarmi agli oggetti. Succede ogni volta che faccio una doccia. Tutta quell’acqua…Non lava solo il mio corpo ma anche la percezione che ho di me nel mondo. Una nebbia improvvisa che si intreccia nella trasparenza delle gocce. In quel momento il mio mondo è tutto lì. Nei 60 cm x 30 del piatto doccia che è in realtà una vasca da bagno in miniatura. Una vasca da bagno per bambole. Un mondo stretto ma alto, così alto che non se ne scorgono i confini. E il primo oggetto con cui devo vedermela, uscita da lì, non è né il tappeto, né il phon. Piuttosto la penna a biro. E’ affidandomi a lei, e non ad un computer, che ho deciso di sputare questo libro perché vorrei che seguisse realisticamente i sentieri dei miei personaggi. Registrando, come in un elettroencefalogramma, ogni vibrazione, ogni bagliore. Perché mi corregga dalla retorica e mi tenga lontana dall’omologazione di una tastiera. Per tutto questo e per altro ancora.
Perché io possa vedere ogni pagina prendere corpo e scorgere, riflessa nella mia calligrafia, l’inquietudine narrativa dei miei pensieri. Che stanno per lasciarmi e diventare qualcos’altro. E’, forse, adesso arrivato il momento?
INTRODUZIONE 3
Salire le scale, 250 cal.
Alzare il braccio e portarlo alla credenza, 75 cal.
Trascinare la cassa d’acqua, dalla terrazza alla cucina, 162 cal.
Pulire lo specchio, sollevandosi sulla punta dei piedi, 86 cal.
Affacciarsi alla finestra, 35 cal.
Guardare il cielo, 6 cal.
Chiudere gli occhi, 1 cal., 1 cal. sola? Una per ogni palpebra.
Pensare. Nessuno è mai riuscito a misurare le calorie che si consumano quando si pensa. Forse, dipende dai pensieri.
Credo sia una fortuna perché possiamo essere salvati dalla perenne condizione di fantasmi. Noi non consumiamo calorie, come i fantasmi, ma solo quando pensiamo. E i fantasmi, loro, non pensano.
Le storie che andiamo a vivere si attaccano ai nostri pensieri, parassitandoli. Non siamo fantasmi. Siamo grappoli. Gli uni sopra gli altri. Gli uni sotto gli altri. Grappoli che si trascinano dietro storie.
INTRODUZIONE 4
Quanta scrittura va perduta. Potrebbe da sola rappresentare un combustibile alternativo per auto in cerca di nuovi carburanti. Tutta quella scrittura che rimane intrappolata negli arti della nostra mente. Che non trova nessun orifizio, nessuna fessura da cui uscire.
Dove si blocca la scrittura che va perduta? Tra gli occhi e la bocca? Tra gli occhi e le orecchie? Tra le orecchie e la bocca? Ha suono? Ha sapore la scrittura che va perduta? E’ un feto che gia conosce il suo abortivo destino.
E se invece della testa rimanesse intrappolata fra i piedi? Un sasso imprigionato dentro la pelle, così minuscolo da non ritrovare la via d’uscita.
E di cosa parlerebbe la scrittura che va perduta? Forse è grande letteratura. La più grande. Quella che nessuno potrà mai sfogliare o declamare. Sottratta per l’eternità al decadimento fisico e al deterioramento del pensiero.
La scrittura che va persa è quella che io vorrei raccogliere, in ogni strada e in ogni via del mondo.
Per sottrarre all’umanità l’amara melodia del rammarico.
INTRODUZIONE 5
Il posto più scontato è lo specchio. Il mio viso riflesso che bagnato dalla luce sembra rivelare una profondità che non ho. Ma lì non li scorgo e allora mi aggiro tra una stanza e l’altra della mia casa. Magari ci inciampo…
Tutto, però, tace e a rimbalzarmi addosso è solo il silenzio. Forse i personaggi che aspetto non sono mai esistiti? Può l’umana presunzione spingermi fino a questo punto?
Tre azioni, allora, in una: sbatto la porta, compro un biglietto aereo e me ne vado a Washington.
Forse può succedere qualcosa.
ZENITH
di Maria Zuppello
Figlio,
mia carne fatta,
fisso il tuo volto
e vengo ai sogni antichi.
Cammina nella palude
Pronto al guado,
giusto e forte
come è dovuto.
E’ tutto.
Lascia la mia mano
e vai
Versi di mia madre.
Scritti pensando a ciò che sarebbe venuto dopo.
Cioè io.
A lei, dunque, dedico questa prima pagina. E tutte quelle che seguono.
INTRODUZIONE N.1
Voi non potete saperlo ma vi assicuro: comincio a scrivere questo libro a penna. Una penna biro. Di quelle che tutti, con meno di un euro, possiamo trovare al bar o in tabaccheria o rubare al collega in ufficio. Sempre che si abbia un ufficio. Uno strumento a portata di mano, di tutte le mani. La penna l’ho strappata al disordine della mia borsetta, il blocco, invece, è un regalo di compleanno di un mio amico gravemente ammalato di miopia. E perfino astigmatico.
Ho scelto un punto preciso della mia casa da trasformare nel recinto sacro. Dove nasce, per mai più morire, il letto del fiume. E’ un punto duro. E’ un angolo. Strano destino quello degli angoli. Godono di misure che gli sono loro proprie e che solo a loro appartengono. Sposano il vuoto e spesso sono costretti a fissarlo per una vita intera. Ma sopravvivono. A molte catastrofi. Al quotidiano. Alle lotte, ai fratricidi, ai piccoli grandi delitti che si consumano in ogni città, ad ogni latitudine, dentro le case di tutti. Gli angoli delle case tengono in piedi il ring, delimitano il tempio, ricusano i colpi del tempo e dello spazio. Sono geometrie allo stato puro.
Non posso stare in piedi, però, anche se mi piacerebbe da impazzire scrivere un intero romanzo in piedi. Un modo originale di interpretare la precarietà? Non posso stare in piedi perché sento che questo lavoro mi impegnerà a lungo. Con continuità. Il posto fisso che ho sempre sognato!
Ma vorrei immaginarmi così. Come uno spaventapasseri. Che allontana le ombre cattive e protegge il raccolto, accrescendo la fecondità del campo.
E’ l’angolo sud-est della casa che diventerà il punto su cui ergerò il mio piedistallo di scrittrice in cerca di ispirazione. Punto di mera geometria. Una durissima onda di canne orientali compone la mia chaise longue. Dura ma comoda. Per tenere sempre vivi e appuntiti i miei pensieri. In perenne stato di allerta. I miei pensieri. Ogni tanto mi guardano da lontano. Ogni tanto mi sovrastano. Talvolta addirittura paiono dilegiarmi.
Sono in cerca di una storia. Ma la storia in realtà c’è già. Faccio finta di illudermi ma so che non è vero. Io intanto aspetto. L’attesa riempie sempre. Aspetto che la storia venga a me, che si lasci bramare, che si dipani davanti ai miei occhi e mi prenda per mano gettandomi nelle braccia dure dei miei personaggi.
Oggi è il 18 maggio 2002. E’ Domenica pomeriggio. E per scrivere un’introduzione è il giorno ideale. Questo giorno della settimana, per lo meno fino a poco prima del tramonto, non riesce ad uccidere il senso dell’attesa che di ogni buona introduzione è il signore incontrastato. Se dopo queste righe troverete una storia vorrà dire che la chaise longue ha compiuto il suo dovere.
INTRODUZIONE N.2
Devo riabituarmi agli oggetti. Succede ogni volta che faccio una doccia. Tutta quell’acqua…Non lava solo il mio corpo ma anche la percezione che ho di me nel mondo. Una nebbia improvvisa che si intreccia nella trasparenza delle gocce. In quel momento il mio mondo è tutto lì. Nei 60 cm x 30 del piatto doccia che è in realtà una vasca da bagno in miniatura. Una vasca da bagno per bambole. Un mondo stretto ma alto, così alto che non se ne scorgono i confini. E il primo oggetto con cui devo vedermela, uscita da lì, non è né il tappeto, né il phon. Piuttosto la penna a biro. E’ affidandomi a lei, e non ad un computer, che ho deciso di sputare questo libro perché vorrei che seguisse realisticamente i sentieri dei miei personaggi. Registrando, come in un elettroencefalogramma, ogni vibrazione, ogni bagliore. Perché mi corregga dalla retorica e mi tenga lontana dall’omologazione di una tastiera. Per tutto questo e per altro ancora.
Perché io possa vedere ogni pagina prendere corpo e scorgere, riflessa nella mia calligrafia, l’inquietudine narrativa dei miei pensieri. Che stanno per lasciarmi e diventare qualcos’altro. E’, forse, adesso arrivato il momento?
INTRODUZIONE 3
Salire le scale, 250 cal.
Alzare il braccio e portarlo alla credenza, 75 cal.
Trascinare la cassa d’acqua, dalla terrazza alla cucina, 162 cal.
Pulire lo specchio, sollevandosi sulla punta dei piedi, 86 cal.
Affacciarsi alla finestra, 35 cal.
Guardare il cielo, 6 cal.
Chiudere gli occhi, 1 cal., 1 cal. sola? Una per ogni palpebra.
Pensare. Nessuno è mai riuscito a misurare le calorie che si consumano quando si pensa. Forse, dipende dai pensieri.
Credo sia una fortuna perché possiamo essere salvati dalla perenne condizione di fantasmi. Noi non consumiamo calorie, come i fantasmi, ma solo quando pensiamo. E i fantasmi, loro, non pensano.
Le storie che andiamo a vivere si attaccano ai nostri pensieri, parassitandoli. Non siamo fantasmi. Siamo grappoli. Gli uni sopra gli altri. Gli uni sotto gli altri. Grappoli che si trascinano dietro storie.
INTRODUZIONE 4
Quanta scrittura va perduta. Potrebbe da sola rappresentare un combustibile alternativo per auto in cerca di nuovi carburanti. Tutta quella scrittura che rimane intrappolata negli arti della nostra mente. Che non trova nessun orifizio, nessuna fessura da cui uscire.
Dove si blocca la scrittura che va perduta? Tra gli occhi e la bocca? Tra gli occhi e le orecchie? Tra le orecchie e la bocca? Ha suono? Ha sapore la scrittura che va perduta? E’ un feto che gia conosce il suo abortivo destino.
E se invece della testa rimanesse intrappolata fra i piedi? Un sasso imprigionato dentro la pelle, così minuscolo da non ritrovare la via d’uscita.
E di cosa parlerebbe la scrittura che va perduta? Forse è grande letteratura. La più grande. Quella che nessuno potrà mai sfogliare o declamare. Sottratta per l’eternità al decadimento fisico e al deterioramento del pensiero.
La scrittura che va persa è quella che io vorrei raccogliere, in ogni strada e in ogni via del mondo.
Per sottrarre all’umanità l’amara melodia del rammarico.
INTRODUZIONE 5
Il posto più scontato è lo specchio. Il mio viso riflesso che bagnato dalla luce sembra rivelare una profondità che non ho. Ma lì non li scorgo e allora mi aggiro tra una stanza e l’altra della mia casa. Magari ci inciampo…
Tutto, però, tace e a rimbalzarmi addosso è solo il silenzio. Forse i personaggi che aspetto non sono mai esistiti? Può l’umana presunzione spingermi fino a questo punto?
Tre azioni, allora, in una: sbatto la porta, compro un biglietto aereo e me ne vado a Washington.
Forse può succedere qualcosa.
ZENITH 2
Macchie. Ovunque. E tutte di spessore. Ammoniaca. Salsedine. Perfino il sale che non ha ombra. Croste di vita avevano finito con il contaminare tutta la città. E non c’era detersivo a redimerle. Né sforzo umano. Se la schiavitù avesse dovuto risorgere in questo scorcio di millennio almeno avrebbe avuto una nobile giustificazione. Loro, le macchie. Alcune erano bellissime. Chiedevano a gran voce una cornice perché chi passasse dedicasse loro uno sguardo, un pensiero, un segmento d’attenzione. Altre erano invise alla strada, al mondo. Perfino alla materia di cui rappresentavano l’atto di superbia più estremo. Le macchie erano un regalo, infatti, che la materia faceva a se stessa. La sua opera d’arte più ingombrante.
Noi e le macchie. Come rapportarsi?
Schivarle? Ossequiarle? Riconoscere loro quella continuità di cui sono in realtà l’ostinata negazione? Le macchie sono il nostro atto di dolore.
Mio Dio mi pento e mi dolgo con tutto il cuore dei miei peccati perché peccando ho meritato i tuoi castighi e molto più perché ho offeso te, infinitamente buono e degno di essere amato sopra ogni cosa. Sopra ogni cosa. Le macchie sono il nostro atto di superbia. Negazione costante della vita come flusso. Negazione di quel “sopra ogni cosa” che dovrebbe essere la nostra freccia di direzione. Le macchie sono fra le cose e sopravvivono anche alle cose quando esse non ci sono piu’. Ci si inciampa dentro come nelle pozzanghere .
All’interno della National Gallery sono inciampata in otto macchie. Era buio ma mi sono accorta della loro presenza. Perché il mio passo non era più lo stesso. E perché all’improvviso non mi sentii più sola. Da queste macchie è cominciata la storia che segue che è la somma della mia e delle storie delle otto macchie, una ad una. Spalmate per secoli su quadri appesi con 8 chiodi alle pareti del museo. Quando le ho incontrate quella notte erano solo macchie. Fuori da una tela. In cerca di una direzione. E di un corpo. Le storie sarebbero arrivate dopo. (...)
Noi e le macchie. Come rapportarsi?
Schivarle? Ossequiarle? Riconoscere loro quella continuità di cui sono in realtà l’ostinata negazione? Le macchie sono il nostro atto di dolore.
Mio Dio mi pento e mi dolgo con tutto il cuore dei miei peccati perché peccando ho meritato i tuoi castighi e molto più perché ho offeso te, infinitamente buono e degno di essere amato sopra ogni cosa. Sopra ogni cosa. Le macchie sono il nostro atto di superbia. Negazione costante della vita come flusso. Negazione di quel “sopra ogni cosa” che dovrebbe essere la nostra freccia di direzione. Le macchie sono fra le cose e sopravvivono anche alle cose quando esse non ci sono piu’. Ci si inciampa dentro come nelle pozzanghere .
All’interno della National Gallery sono inciampata in otto macchie. Era buio ma mi sono accorta della loro presenza. Perché il mio passo non era più lo stesso. E perché all’improvviso non mi sentii più sola. Da queste macchie è cominciata la storia che segue che è la somma della mia e delle storie delle otto macchie, una ad una. Spalmate per secoli su quadri appesi con 8 chiodi alle pareti del museo. Quando le ho incontrate quella notte erano solo macchie. Fuori da una tela. In cerca di una direzione. E di un corpo. Le storie sarebbero arrivate dopo. (...)
Dead Funny: Humor in Hitler's Germany, By Rudolph Herzog
FROM THE INDEPENDENT
Why the Reich had no real rib-ticklers
Reviewed by Steve Jelbert
Peter Watson's recent The German Genius, a primer of Teutonic talent overlooked by a nation (ours) obsessed with National Socialism, was a thoughtful reminder of just how much German Kultur gave to the modern world, from abstract concepts to reassuringly solid engineering. Humour, though, barely appears.
The disconnect between German ghastliness and German brilliance doesn't allow room for it. After all, when John Cleese exploded in Fawlty Towers, it was the concussed Basil's guests who pleaded that there was nothing funny about the war, "not for us, not for any German".
Yet jokes were not simply abolished in the Third Reich, as Rudolph Herzog, son of the film-maker Werner, makes clear in this concise, compelling book. Although some died for their quips, their fates had already been decided from above. The actor and indiscreet raconteur Robert Dorsay, already hounded from employment, made one last splash as lurid posters announced his judicial murder. By contrast, the cabaret artist Werner Finck somehow managed to navigate his way through the era, daringly evading arrest by signing up. Postwar, he became a living symbol of a lost age.
Stripped of historical context, few of the gags in this book are actually funny, the author concedes. But he never lets mild satire pass as heroic opposition. Drinkers entering a bar and substituting "drei liter!" for the "German greeting" ("Heil Hitler!") or jazz-loving Swing Kids yelping "swing heil!" were as ineffectual as they were witty. Such gadflies were rarely prosecuted.
This, then, is a history of what passed for humour, including triumphalist gloating and petty anti-Semitic clichés. Unlike Hammer and Tickle, Ben Lewis's investigation of oppositional humour under Communism, Herzog gives equal space to the state-approved and compromised. Top Nazis liked to be seen enjoying themselves in public, taking in light entertainment that ranged from the feeble to the downright shocking. An astonishingly unfunny script unearthed from a never broadcast television variety show even refers to "concertration camps", a bad taste pun to beat all.
The turgid wartime public information routines of the characters Tran and Helle now seem merely threatening. German film, especially comedy, regressed as party hacks took over and the most talented fled.
But Jewish entertainers, effectively awaiting death, continued to perform. The forced cabaret at the "model camp" Theresienstadt was, paradoxically, freer than any since Weimar. The official propaganda film made under duress by the talented camp inmates somehow became known by the strictly unofficial, bleakly sarcastic title The Führer Gives the Jews a City. If a culture's strength is exemplified by its sense of humour, then the Nazis could never have wiped out Jewry.
Why the Reich had no real rib-ticklers
Reviewed by Steve Jelbert
Peter Watson's recent The German Genius, a primer of Teutonic talent overlooked by a nation (ours) obsessed with National Socialism, was a thoughtful reminder of just how much German Kultur gave to the modern world, from abstract concepts to reassuringly solid engineering. Humour, though, barely appears.
The disconnect between German ghastliness and German brilliance doesn't allow room for it. After all, when John Cleese exploded in Fawlty Towers, it was the concussed Basil's guests who pleaded that there was nothing funny about the war, "not for us, not for any German".
Yet jokes were not simply abolished in the Third Reich, as Rudolph Herzog, son of the film-maker Werner, makes clear in this concise, compelling book. Although some died for their quips, their fates had already been decided from above. The actor and indiscreet raconteur Robert Dorsay, already hounded from employment, made one last splash as lurid posters announced his judicial murder. By contrast, the cabaret artist Werner Finck somehow managed to navigate his way through the era, daringly evading arrest by signing up. Postwar, he became a living symbol of a lost age.
Stripped of historical context, few of the gags in this book are actually funny, the author concedes. But he never lets mild satire pass as heroic opposition. Drinkers entering a bar and substituting "drei liter!" for the "German greeting" ("Heil Hitler!") or jazz-loving Swing Kids yelping "swing heil!" were as ineffectual as they were witty. Such gadflies were rarely prosecuted.
This, then, is a history of what passed for humour, including triumphalist gloating and petty anti-Semitic clichés. Unlike Hammer and Tickle, Ben Lewis's investigation of oppositional humour under Communism, Herzog gives equal space to the state-approved and compromised. Top Nazis liked to be seen enjoying themselves in public, taking in light entertainment that ranged from the feeble to the downright shocking. An astonishingly unfunny script unearthed from a never broadcast television variety show even refers to "concertration camps", a bad taste pun to beat all.
The turgid wartime public information routines of the characters Tran and Helle now seem merely threatening. German film, especially comedy, regressed as party hacks took over and the most talented fled.
But Jewish entertainers, effectively awaiting death, continued to perform. The forced cabaret at the "model camp" Theresienstadt was, paradoxically, freer than any since Weimar. The official propaganda film made under duress by the talented camp inmates somehow became known by the strictly unofficial, bleakly sarcastic title The Führer Gives the Jews a City. If a culture's strength is exemplified by its sense of humour, then the Nazis could never have wiped out Jewry.
sabato 21 maggio 2011
Rereading: The Tunnel by Ernesto Sábato
The Argentinian writer's work explored his country's darkest days and helped to bring the military regime to account
Colm Tóibín
The Guardian
t is with sadness and sorrow that we have carried out the mission entrusted to us by the constitutional president of the republic. It has been an extremely arduous task, for we had to piece together a shadowy jigsaw, years after the events had taken place, when all the clues had been deliberately destroyed, all documentary evidence burned, and buildings demolished. The basis for our work has therefore been the statements made by relatives of those who had managed to escape from this hell, or even the testimonies of people who were involved in the repression but who, for whatever obscure motives, approached us to tell us what they knew. – Ernesto Sábato, prologue to Nunca Mas, 1984
The Tunnel
by Ernesto Sábato
Buy it from the Guardian bookshopSearch the Guardian bookshop
Tell us what you think: Star-rate and review this bookErnesto Sábato, who died on 30 April just two months away from his 100th birthday, was a central figure not only in the literary life of Argentina in the 20th century, but in its political and civil life as well. In the dark days after the fall of the generals who had caused the disappearance of thousands of people, and lost the Malvinas war, Sábato was chosen to chair the commission to investigate the crimes against humanity committed during their reign. As a novelist of immense seriousness and power, he was one of the few public figures who had moral authority and independence of mind in Argentina at that time. The commission delivered its findings in September 1984; the report was detailed, horrifying and indisputable. As a result of what it disclosed – published in November 1984 as Nunca Mas (Never Again) – the generals were put on trial. It was Sábato's report that established in the minds of people in Argentina the enormity of what had happened in their country.
Sábato was born in the province of Buenos Aires in 1911 and began his career as a scientist. In the early 1940s, he was one of those many talented Argentinians whose work appeared in the literary magazine Sur, which was edited by Victoria Ocampo. His first novel, The Tunnel, was published in the magazine in 1948. Although he knew and admired Borges and Bioy Casares, and wrote about them in Sur, he was not an intimate of theirs; his early communism, for one thing, would not have endeared him to them. But he had something essential in common with them, and with other Argentine novelists such as Julio Cortázar and Juan José Saer: his work, especially the novels The Tunnel, On Heroes and Tombs (1961) and The Angel of Darkness (1974), was uncompromising and original both in tone and structure.
In his essay "The Argentine Writer and Tradition", Borges made clear the scope and the scale of the ambition of the Argentine writers of the 20th century. He suggested that, by virtue of being so distant and so close to Europe at the same time, the Argentine writer had more "rights" to western culture than anyone in any western nation. They were like Irish writers, he wrote, for whom it was "enough, the fact of feeling Irish, different, to become innovators within English culture". Thus, Borges, Bioy Casares and Sábato had in common the idea that it was not their role to explain Argentina to itself or to the world; it was not their job to explore changes in morals and manners in their country, or write social realism about Buenos Aires or the Pampas. Their job was not to remake their country in their own image, but remake literature itself, to offer it energy and fresh form.
So they took what was available from European literature and set about refining it or undermining it. In The Tunnel, Sábato took the idea of the demented male artist and the city, which had its roots in Russian and French fiction, and transported it to Buenos Aires – not to offer it local colour, but to offer it further depth and strangeness. He created a hero even less heroic than usual and made his actions even more inexplicable to everyone except himself. He allowed the surrounding existential darkness to be even more negative than normal; the protagonist's obsession became more driven, energetic and generally demented than that of his European counterparts, and also more oddly credible and intense.
The intensity and credibility arise from the style. Like Borges and Bioy Casares, as The Tunnel makes clear, Sábato the scientist was interested in the clipped, declarative style of the murder mystery or the police file. While the novel describes extreme states of frenzied feeling and related activity, the prose is fiercely controlled; most of the sentences are short and describe a single action or emotion. Thus, the distance between the subject of the novel and the tone of the prose offers a sort of tension to the narrative. This tension allows the narrator not to bother with analysis of motive, or flashbacks or character studies. It forces the reader to accept these as either totally unnecessary or fully understood.
The Tunnel is a novel about madness recollected in a prison cell, but it is not an apology for the madness or the actions that the madness caused, nor is it a rational explanation of them. Instead, it leads the reader into the world of the protagonist, using a deliberately calm style to suggest that this world is normal. The mind of Juan Pablo Castel is given a kind of logic by the tone and sentence structure of the novel, which are precise and clear.
As in novels by Dostoyevsky and Kafka, there are moments when the rules governing despair are so closely undermined or re-examined or dramatised that the entire enterprise of living or thinking seems deeply absurd. What ensues is pure comedy. This happens, for example, in a classic scene in The Tunnel, when Juan Pablo Castel posts a letter to Maria and then decides he wishes to retrieve the letter. The encounter with the woman in the post office and the listing of regulations and demands put the reader on the side of Castel for a while. But not for long. The feeling that Castel is behaving both rationally and outrageously forces the reader to switch loyalty every few sentences: you feel one minute that Castel is a maniac and his own worst enemy, and then the next minute you really want him to retrieve the letter.
It is clear that The Tunnel belongs to a literary genre that explores dark areas of the self, and violence and irrationality in the anonymous mean streets of the modern city. It is important to remember that it is an Argentine novel only because it was open to European influences and contemporary genres, which it set out to develop and intensify. In its manic material and its grim laughter, it is not a metaphor for any society, Argentine or otherwise. Yet, because of the style, so controlled and factual, and the content, which deals with a world where violence, disorder and megalomania reigned, it is fascinating to read The Tunnel from 1948 in conjunction with the sober and detailed report that Sábato and his commission produced in 1984, about real murders committed in the real city where the fictional anti-hero Juan Pablo Castel once produced his art, and where Sábato produced his first novel.
Colm Tóibín
The Guardian
t is with sadness and sorrow that we have carried out the mission entrusted to us by the constitutional president of the republic. It has been an extremely arduous task, for we had to piece together a shadowy jigsaw, years after the events had taken place, when all the clues had been deliberately destroyed, all documentary evidence burned, and buildings demolished. The basis for our work has therefore been the statements made by relatives of those who had managed to escape from this hell, or even the testimonies of people who were involved in the repression but who, for whatever obscure motives, approached us to tell us what they knew. – Ernesto Sábato, prologue to Nunca Mas, 1984
The Tunnel
by Ernesto Sábato
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Tell us what you think: Star-rate and review this bookErnesto Sábato, who died on 30 April just two months away from his 100th birthday, was a central figure not only in the literary life of Argentina in the 20th century, but in its political and civil life as well. In the dark days after the fall of the generals who had caused the disappearance of thousands of people, and lost the Malvinas war, Sábato was chosen to chair the commission to investigate the crimes against humanity committed during their reign. As a novelist of immense seriousness and power, he was one of the few public figures who had moral authority and independence of mind in Argentina at that time. The commission delivered its findings in September 1984; the report was detailed, horrifying and indisputable. As a result of what it disclosed – published in November 1984 as Nunca Mas (Never Again) – the generals were put on trial. It was Sábato's report that established in the minds of people in Argentina the enormity of what had happened in their country.
Sábato was born in the province of Buenos Aires in 1911 and began his career as a scientist. In the early 1940s, he was one of those many talented Argentinians whose work appeared in the literary magazine Sur, which was edited by Victoria Ocampo. His first novel, The Tunnel, was published in the magazine in 1948. Although he knew and admired Borges and Bioy Casares, and wrote about them in Sur, he was not an intimate of theirs; his early communism, for one thing, would not have endeared him to them. But he had something essential in common with them, and with other Argentine novelists such as Julio Cortázar and Juan José Saer: his work, especially the novels The Tunnel, On Heroes and Tombs (1961) and The Angel of Darkness (1974), was uncompromising and original both in tone and structure.
In his essay "The Argentine Writer and Tradition", Borges made clear the scope and the scale of the ambition of the Argentine writers of the 20th century. He suggested that, by virtue of being so distant and so close to Europe at the same time, the Argentine writer had more "rights" to western culture than anyone in any western nation. They were like Irish writers, he wrote, for whom it was "enough, the fact of feeling Irish, different, to become innovators within English culture". Thus, Borges, Bioy Casares and Sábato had in common the idea that it was not their role to explain Argentina to itself or to the world; it was not their job to explore changes in morals and manners in their country, or write social realism about Buenos Aires or the Pampas. Their job was not to remake their country in their own image, but remake literature itself, to offer it energy and fresh form.
So they took what was available from European literature and set about refining it or undermining it. In The Tunnel, Sábato took the idea of the demented male artist and the city, which had its roots in Russian and French fiction, and transported it to Buenos Aires – not to offer it local colour, but to offer it further depth and strangeness. He created a hero even less heroic than usual and made his actions even more inexplicable to everyone except himself. He allowed the surrounding existential darkness to be even more negative than normal; the protagonist's obsession became more driven, energetic and generally demented than that of his European counterparts, and also more oddly credible and intense.
The intensity and credibility arise from the style. Like Borges and Bioy Casares, as The Tunnel makes clear, Sábato the scientist was interested in the clipped, declarative style of the murder mystery or the police file. While the novel describes extreme states of frenzied feeling and related activity, the prose is fiercely controlled; most of the sentences are short and describe a single action or emotion. Thus, the distance between the subject of the novel and the tone of the prose offers a sort of tension to the narrative. This tension allows the narrator not to bother with analysis of motive, or flashbacks or character studies. It forces the reader to accept these as either totally unnecessary or fully understood.
The Tunnel is a novel about madness recollected in a prison cell, but it is not an apology for the madness or the actions that the madness caused, nor is it a rational explanation of them. Instead, it leads the reader into the world of the protagonist, using a deliberately calm style to suggest that this world is normal. The mind of Juan Pablo Castel is given a kind of logic by the tone and sentence structure of the novel, which are precise and clear.
As in novels by Dostoyevsky and Kafka, there are moments when the rules governing despair are so closely undermined or re-examined or dramatised that the entire enterprise of living or thinking seems deeply absurd. What ensues is pure comedy. This happens, for example, in a classic scene in The Tunnel, when Juan Pablo Castel posts a letter to Maria and then decides he wishes to retrieve the letter. The encounter with the woman in the post office and the listing of regulations and demands put the reader on the side of Castel for a while. But not for long. The feeling that Castel is behaving both rationally and outrageously forces the reader to switch loyalty every few sentences: you feel one minute that Castel is a maniac and his own worst enemy, and then the next minute you really want him to retrieve the letter.
It is clear that The Tunnel belongs to a literary genre that explores dark areas of the self, and violence and irrationality in the anonymous mean streets of the modern city. It is important to remember that it is an Argentine novel only because it was open to European influences and contemporary genres, which it set out to develop and intensify. In its manic material and its grim laughter, it is not a metaphor for any society, Argentine or otherwise. Yet, because of the style, so controlled and factual, and the content, which deals with a world where violence, disorder and megalomania reigned, it is fascinating to read The Tunnel from 1948 in conjunction with the sober and detailed report that Sábato and his commission produced in 1984, about real murders committed in the real city where the fictional anti-hero Juan Pablo Castel once produced his art, and where Sábato produced his first novel.
Jane Austen rare manuscript up for sale
FROM THE GUARDIAN
A rare, handwritten manuscript of Jane Austen's unfinished novel The Watsons is to be sold at auction at Sotherby's in London
Mark Brown, arts correspondent guardian.co.uk,
An incredibly rare handwritten manuscript of an unfinished novel by Jane Austen – the only one that is still in private hands – is to appear at auction in London.
The neatly written but heavily corrected pages are for her unfinished work The Watsons, a novel which many believe could easily have been as good as her six completed works.
Gabriel Heaton, Sotheby's senior specialist in books and manuscripts, said it was "a thrill and privilege" to be selling it: "It is very exciting. This is the most significant Austen material to come on the market since the late 1980s."
It is unquestionably rare. Original manuscripts of her published novels do not exist, aside from two cancelled chapters of Persuasion in the British Library.
The novel is considered around a quarter completed and the manuscript has 68 pages – hand-trimmed by Austen – which have been split up into 11 booklets.
It is most but not all of Austen's unfinished novel. The first 12 pages were sold by an Austen descendent during the first world war to help the Red Cross and are now in New York's Pierpoint Morgan Library, while the next few pages were inexplicably lost by Queen Mary, University of London which has been looking after the manuscript.
The college's director of library services Emma Bull said it happened six years ago, before she arrived, and had resulted in a full investigation which, alas, "did not really come to any firm conclusions about what specifically happened." There had been a hope that they would turn up, but clearly that is now highly unlikely.
The Watsons manuscript shows how Austen's other manuscripts must have looked. It also shines an interesting light on how she worked. Austen took a piece of paper, cut it in two and then folded over each half to make eight-page booklets. Then she would write, small neat handwriting leaving little room for corrections – of which there are many. "You can really see the mind at work with all the corrections and revisions," said Heaton.
At one stage she crosses so much out that she starts a page again and pins it in. It seems, in Austen's mind, her manuscript had to look like a book. "Writers often fall into two categories," said Heaton. "The ones who fall into a moment of great inspiration and that's it and then you have others who endlessly go back and write and tinker. Austen is clearly of the latter variety. It really is a wonderful, evocative document."
The Watsons was written in 1804, not a hugely happy time for Austen professionally – she had one novel rejected and another bought by a publisher who failed to print it.
It was also a difficult time personally and one reason it was not finished may be because fact came too close to the fiction. The Watsons heroine is Emma, one of four sisters who are daughters of a sick and widowed clergyman. The novel would have had the father die leaving Emma in a precarious financial position. In real life, Austen's clergyman father died leaving her in a similar pickle to her fictional heroine.
Had Austen completed The Watsons there are many who believe it would have been a classic. Margaret Drabble described it as "a tantalising, delightful and highly accomplished fragment, which must surely have proved the equal of her other six novels, had she finished it."
The manuscript was bought by the present owner in 1988 when it was sold by the British Rail Pension Fund. It had been bought from Austen descendents in the 1970s when manuscripts, rare books and fine art seemed like perfectly sensible things for nationalised pension funds to buy.
The manuscript has been valued at £200,000 to £300,000 and will be sold at Sotheby's in London on 14 July.
Mark Brown, arts correspondent guardian.co.uk,
An incredibly rare handwritten manuscript of an unfinished novel by Jane Austen – the only one that is still in private hands – is to appear at auction in London.
The neatly written but heavily corrected pages are for her unfinished work The Watsons, a novel which many believe could easily have been as good as her six completed works.
Gabriel Heaton, Sotheby's senior specialist in books and manuscripts, said it was "a thrill and privilege" to be selling it: "It is very exciting. This is the most significant Austen material to come on the market since the late 1980s."
It is unquestionably rare. Original manuscripts of her published novels do not exist, aside from two cancelled chapters of Persuasion in the British Library.
The novel is considered around a quarter completed and the manuscript has 68 pages – hand-trimmed by Austen – which have been split up into 11 booklets.
It is most but not all of Austen's unfinished novel. The first 12 pages were sold by an Austen descendent during the first world war to help the Red Cross and are now in New York's Pierpoint Morgan Library, while the next few pages were inexplicably lost by Queen Mary, University of London which has been looking after the manuscript.
The college's director of library services Emma Bull said it happened six years ago, before she arrived, and had resulted in a full investigation which, alas, "did not really come to any firm conclusions about what specifically happened." There had been a hope that they would turn up, but clearly that is now highly unlikely.
The Watsons manuscript shows how Austen's other manuscripts must have looked. It also shines an interesting light on how she worked. Austen took a piece of paper, cut it in two and then folded over each half to make eight-page booklets. Then she would write, small neat handwriting leaving little room for corrections – of which there are many. "You can really see the mind at work with all the corrections and revisions," said Heaton.
At one stage she crosses so much out that she starts a page again and pins it in. It seems, in Austen's mind, her manuscript had to look like a book. "Writers often fall into two categories," said Heaton. "The ones who fall into a moment of great inspiration and that's it and then you have others who endlessly go back and write and tinker. Austen is clearly of the latter variety. It really is a wonderful, evocative document."
The Watsons was written in 1804, not a hugely happy time for Austen professionally – she had one novel rejected and another bought by a publisher who failed to print it.
It was also a difficult time personally and one reason it was not finished may be because fact came too close to the fiction. The Watsons heroine is Emma, one of four sisters who are daughters of a sick and widowed clergyman. The novel would have had the father die leaving Emma in a precarious financial position. In real life, Austen's clergyman father died leaving her in a similar pickle to her fictional heroine.
Had Austen completed The Watsons there are many who believe it would have been a classic. Margaret Drabble described it as "a tantalising, delightful and highly accomplished fragment, which must surely have proved the equal of her other six novels, had she finished it."
The manuscript was bought by the present owner in 1988 when it was sold by the British Rail Pension Fund. It had been bought from Austen descendents in the 1970s when manuscripts, rare books and fine art seemed like perfectly sensible things for nationalised pension funds to buy.
The manuscript has been valued at £200,000 to £300,000 and will be sold at Sotheby's in London on 14 July.
venerdì 20 maggio 2011
La gloire de Pagnol
D'APRES LE FIGARO
Par Dominique Guiou, Mohammed Aissaoui, Philippe Claudel
Alors que tant d'auteurs du XXe siècle sont au purgatoire, l'écrivain et cinéaste séduit toujours. Une biographie, un film et une vente de manuscrits en témoignent.
• INTERVIEW - Jacqueline Pagnol: «Avec lui, rien ne semblait impossible»
• PORTRAIT - Conteur hors pair, infatigable inventeur
• Des mots chargés de lumière
• Il n'a jamais connu le purgatoire
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Jacqueline Pagnol: «Avec lui, rien ne semblait impossible»
Celle qui la première incarna Manon continue de faire vivre le souvenir de son mari.
Depuis la mort de Marcel Pagnol, le 18 avril 1974, elle veille scrupuleusement sur la mémoire de celui qui l'épousa en 1945 et dont elle fut l'inoubliable interprète -et la vedette de plusieurs de ses films, notamment Manon des sources.
LE FIGARO. - En épousant Marcel Pagnol, vous avez changé radicalement de vie…
Jacqueline PAGNOL. - Oui, j'avais vingt-trois ans quand j'ai commencé à vivre avec Marcel, et je ne l'ai plus quitté. J'ai choisi cette vie, près de lui, et je ne l'ai jamais regretté. Je n'ai plus fait autre chose qu'être à ses côtés, dans la vie quotidienne, bien sûr, mais aussi au cinéma, puisque je n'ai pratiquement plus tourné que pour lui… J'ai essayé, au début de notre mariage, de faire du cinéma sans Marcel. Mais je m'embêtais énormément. J'ai compris très vite que je n'avais pas envie de m'éloigner de lui. Il faut dire que la vie avec Marcel était merveilleuse.
Quel mari était-il?
Il avait un charme fou, il était irrésistible, constamment drôle. Avec lui, rien ne semblait impossible. Les obstacles, les difficultés semblaient s'éloigner comme par magie. Il avait le don d'aplanir la route devant lui. J'étais très sensible aussi à son côté Pic de la Mirandole. Il savait tout, avait réponse à tout. Mon fils et moi lui posions tous les jours des questions sur toutes sortes de sujets, et il répondait simplement. Tout semblait clair, facile…
Pendant les tournages, comment se comportait-il avec vous?
Il me laissait une entière liberté. Marcel n'était pas un cinéaste autoritaire. Je ne bénéficiais pas d'un régime de faveur. Il faisait confiance à ses acteurs. Peut-être un peu trop. Je ne le trouvais pas assez sévère avec moi. Je pensais que j'aurais pu être bien meilleure en étant davantage dirigée. Il n'avait pas l'exigence d'un Clouzot, par exemple, qui était impitoyable sur les tournages. Peut-être étais-je un peu maso, mais par moments j'aurais aimé retrouver l'atmosphère de mes années d'apprentissage du métier. J'avais un professeur de théâtre qui était terrible, qui insultait ses élèves, mais pour essayer d'en tirer le meilleur. Marcel, en revanche, n'intervenait pas. Son sens critique, il le réservait à ses propres travaux. Il lui arrivait assez souvent de me dire: «Tu vois, Jacotte, j'ai jeté ce que j'ai écrit hier. Ça ne valait rien.»
Comment se passaient les journées aux côtés de Pagnol?
Quand il ne tournait pas, les journées étaient très ritualisées. Il se levait très tôt et travaillait jusqu'à onze heures ou midi. Ensuite, nous déjeunions. Puis il y avait la coupure de la sieste, la sacro-sainte sieste. Pour rien au monde, il n'y aurait renoncé. Le jour même de son élection à l'Académie française, au moment où les Immortels ont rendu leur verdict, il dormait, comme si cela avait été un jour comme un autre. Quand l'Académie a appelé, c'est moi qui ai pris le téléphone, et je suis allée le réveiller pour lui annoncer son élection!
Après la sieste, vers trois heures, Marcel passait à l'atelier. Il bricolait, mettait au point des inventions. Il travaillait le bois -il adorait la menuiserie- ou faisait un peu de mécanique. Il lui arrivait aussi de fabriquer des jouets pour ses petits-enfants. Dès qu'il en avait la possibilité, Marcel aimait à se retrouver en pleine nature. C'était un homme très physique. Il avait besoin d'espace, de grand air, de soleil. Parmi tous ses dons, il avait aussi celui de sourcier.
Il s'est découvert sur le tard une passion pour les mathématiques et la physique…
Jusqu'à la veille de sa mort, alors qu'il était physiquement très affaibli, il a travaillé sur le théorème de Fermat. Le corps lâchait, mais l'esprit était toujours aussi vif. Il entretenait des correspondances suivies avec de grands mathématiciens.
Marcel Pagnol revoyait-il ses films avec vous?
Nous avons eu la télévision dès 1954. Il adorait ça! Nous regardions de nombreux programmes, il pensait que la télévision était un magnifique outil pour la culture du grand public. Quand ses films étaient programmés, nous étions devant le petit écran, bien sûr. C'est ainsi que quelques semaines avant sa mort, nous avons revu La Femme du boulanger. Marcel était alors très faible, en observation à l'Hôpital américain. Soudain, il me dit: «Mon Dieu que c'est mauvais…» Voyant mon étonnement, il esquisse un sourire, comme pour me dire de ne pas prendre au pied de la lettre ses propos. Quelques minutes plus tard, il soupire à nouveau: «Ce passage, il est encore plus mauvais que tout le reste… Et tu sais qui l'a tourné, Jacotte? C'est Jean Renoir. Il appréciait mes films, et il était venu me voir pendant le tournage. Moi, je l'admirais et, ce jour-là, il a dirigé le film à ma place.»
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Conteur hors pair, infatigable inventeur
Le parcours sans faute d'un touche-à-tout de génie.
C'est à soixante ans passés que Marcel Pagnol est devenu écrivain. En 1957, quand il commence la rédaction de ses souvenirs d'enfance, l'auteur n'a plus rien à prouver. On pourrait même croire que sa carrière est derrière lui. Ses personnages à l'accent marseillais ont fait connaître au monde entier une Provence à la fois mythique et réelle. Marius, Fanny, César, Panisse, Escartefigue… autant de figures qui ont quitté le folklore local pour faire partie de la famille universelle. Leurs répliques sont dans toutes les têtes: «Tu me fends le cœur», «Mourir, ça m'est égal, c'est quitter la vie qui me fait de la peine.» Pagnol, à l'Académie depuis plus de dix ans, a connu la gloire, les honneurs, l'argent. Et le bonheur. Il coule des jours heureux auprès de sa femme, Jacqueline, interprète lumineuse de Manon, et de son fils Frédéric. Comment pourrait-il imaginer que ces pages, destinées à l'origine au magazine féminin Elle, vont faire de lui l'un des plus grands écrivains de l'enfance, de ses jeux, de ses illusions et de son innocence?
Et pourtant, avec La Gloire de mon père, Le Château de ma mère et Le Temps des secrets, qui se réduisent somme toute à quelques étés passés dans un cabanon perdu entre Marseille et Aubagne, en compagnie de ses parents, de son frère, de son oncle et de sa tante, Marcel Pagnol va ensoleiller à jamais les lettres françaises. Son secret? Il tient en trois mots: simplicité, clarté, émotion. «Moi, disait-il, je n'ai jamais écrit que sur les lieux communs. De quoi parlent mes pièces et mes films? Du pain, de l'eau, de la mère, de l'enfant naturel, de choses toujours très simples… Ce qui est simple est émouvant, et trouve toujours le chemin du cœur.»
Néoréaliste avant l'heure
Pagnol saura mettre au jour comme personne la délicatesse des petites gens. De banales histoires de clochers, de maris trompés et de filles-mères sur fond de cigales et de lavande assureront la gloire à cet Aubagnais, fils d'un modeste directeur d'école communale. Mais c'est curieusement avec un personnage complexe, inquiétant, pour lequel son créateur n'éprouve aucune tendresse, que Pagnol obtint, à trente-trois ans, son premier succès public. Topaze, qui raconte la métamorphose d'un homme qui était la candeur et la probité mêmes en personnage cynique et corrompu, est loin, en effet, des âmes naïves qui peupleront ses pièces et ses films à venir.
Pagnol fut aussi, on le sait moins, un inventeur infatigable. Inventeur de nouvelles formes artistiques en étant toujours à la pointe des progrès techniques. Il fut l'un des premiers à faire du cinéma parlant, puis à utiliser la couleur. Il tourna nombre de ses films en décors naturels, avec une prise de son directe. Il fut néoréaliste bien avant les Italiens. Son ami Rossellini lui avoua: «Si je n'avais pas vu La Fille du puisatier, je n'aurais jamais tourné Rome ville ouverte.» Bricoleur génial, Pagnol mit au point dans les années trente une voiture de son invention, la Topazette, basée sur le principe du chiffre 3: 3 places, 3 portes, 3 roues, 3 litres aux cent. Enfin, il se découvrit sur le tard une vraie passion pour les mathématiques. Il affirmait à Jacqueline: «Tu verras, un jour ma gloire viendra du théorème de Fermat plutôt que de mon œuvre littéraire.» Pour une fois, il se trompait.
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Des mots chargés de lumière
Philippe Claudel, l'auteur des Âmes grises nous dit pourquoi il aime tant les livres et l'univers de Pagnol.
Parfois, en lisant un livre, on sent soudain que notre cœur s'emballe, qu'il bat plus fort et que notre poitrine s'étreint au point que nous nous demandons, pendant quelques secondes, si l'émotion qui nous envahit, et que les mots ont fait naître, n'est pas en train de nous retirer de la vie, de la nôtre en tout cas, pour nous amener vers un lieu d'incandescence que nous n'aurions même pas soupçonné, et que nous n'aurions jamais pu atteindre sans eux.
Les grands auteurs sont ceux-là justement qui parviennent, grâce à leur langue, à déchirer le rideau des apparences et des fausses séductions pour nous dévoiler la profondeur de nos misères, de nos beautés et de notre fragilité. Pour cette raison, j'ai toujours placé Pagnol en compagnie des plus grands, ainsi que dans la lignée de conteurs et de poètes de l'Antiquité pour qui le monde était une célébration et un temple frémissant de présences.
La beauté de sa langue tient à sa voix simple. Pagnol jamais ne s'encombre d'effets. Il dit les choses, comme un artisan parvenu au sommet de sa pratique après de nombreuses années d'exercice sait choisir le bon outil ou éliminer les ornements superflus. La voix simple de Pagnol est une voix profonde qui, à la façon d'un mistral chassant les quelques derniers nuages encore présents, établit un ciel pur et lumineux, qui devient un miroir dans lequel nous pouvons nous reconnaître. Les mots sont chez lui de purs cailloux ramassés dans le lit d'une claire rivière. Ils sont aussi chargés de lumière et de parfums. Lire Pagnol, c'est respirer, toucher, goûter, c'est apprécier l'ombre d'un puits, la fraîcheur procurée au plein midi par un muret de pierres sèches, la caresse d'un soleil de novembre sur les collines.
Ensorcelante beauté
Il y a chez Pagnol des phrases, des pages, que je connais par cœur, et j'emploie cette expression par cœur dans un sens presque littéral car il me semble que ce n'est pas ma mémoire qui les a retenues, pas plus que mon intelligence, mais bel et bien l'organe de sang et de vie dont on a fait le lieu métaphorique de nos sentiments.
Oui, c'est le cœur qui retient l'ensorcelante beauté de l'incipit de La Gloire de mon père, «Je suis né dans la ville d'Aubagne, sous le Garlaban couronné de chèvres, au temps des derniers chevriers». Et c'est encore le cœur qui garde comme un trésor rare et douloureux les lignes évoquant la mort de la mère, celle du petit frère et de l'ami d'enfance, le cher Lili, dans Le Château de ma mère . Je tiens l'avant-dernier chapitre de ce récit comme une des plus belles pages de la littérature française. Tout est là, en quelques lignes, de la beauté de nos existences, de leurs incohérences, de nos amours et de nos souffrances. Et cela est dit avec des mots de tous les jours, comme nous en avons tous dans nos poches, sans effet, sans esbroufe. À chaque fois, les larmes me viennent aux yeux, et ce sont autant des larmes de peine que de reconnaissance. Je pleure certes sur les fantômes évoqués qui me renvoient aux miens, mais je pleure aussi comme on ose murmurer un merci à celui qui a su si bien dire.
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Il n'a jamais connu de purgatoire
Ses pièces sont adaptées dans le monde entier. Ses films repassent à la télévision tous les deux ans. Et ses livres de souvenirs ont dépassé le cap des vingt millions d'exemplaires vendus.
Pour Bernard de Fallois, qui a été l'ami de Marcel Pagnol et qui reste l'éditeur de toute l'œuvre de l'auteur du Temps des secrets, il n'y a jamais eu de purgatoire pour l'écrivain provençal. Ses œuvres traversent le temps. Le fondateur des Éditions de Fallois explique ce phénomène par deux raisons. La première tient au fait que, malgré les innombrables adaptations, ses films et ses pièces continuent de passer et de repasser à la télévision. Un exemple: la trilogie (Marius, Fanny, César) est programmée en moyenne tous les deux ans; c'est sans doute la plus rediffusée, beaucoup plus que Guitry. Grâce à la télévision, Pagnol est devenu familier des Français de toutes les générations.
La seconde explication est plus psychologique. Selon l'éditeur, de tous les livres consacrés à l'enfance, ceux de Pagnol sont sans doute les plus joyeux et les plus souriants, sans être mièvres. Les enfants comme les adultes adorent. Résultat: les trois récits de souvenirs (La Gloire de mon père, Le Château de ma mère, Le Temps des secrets), conseillés par l'Éducation nationale, ont connu un succès considérable depuis leur publication en 1960 en édition de poche. Ils ont dépassé le cap des vingt millions d'exemplaires et on estime que de ses autres livres, notamment Topaze, on a vendu entre huit et dix millions d'exemplaires. Aujourd'hui, ses textes valent de l'or: les manuscrits de travail de Topaze et de Jazz, mis en vente mercredi par Sotheby's, ont été préemptés par la Bibliothèque nationale de France pour 28.000 €.
En fait, Pagnol, par la grâce de son écriture -théâtrale, cinématographie, romanesque- a créé un cercle vertueux. Ses livres nourrissent ses pièces qui nourrissent ses films qui nourrissent ses livres… D'ailleurs, il s'est adapté lui-même et a réalisé trois versions de Topaze, dont une avec Fernandel. Dès ses débuts, le potentiel de succès de ses histoires est repéré à Hollywood. Ainsi la Paramount est-elle la première à produire Marius et Topaze: c'était en 1931 et 1932. Topaze est son œuvre la plus adaptée dans le monde. Il a été traduit dans toutes les langues occidentales mais aussi en arabe et en chinois.
Un auteur total
La dernière adaptation cinématographique en date est sortie dans les salles le mois dernier. La Fille du puisatier a été réalisé et joué par Daniel Auteuil, césar du meilleur acteur avec Jean de Florette. Ce film est un succès. «Nous en sommes à un million de spectateurs, et ça devrait continuer», affirme Jean-François Robin, directeur de la photo du long-métrage et auteur du Journal d'un tournage: La fille du puisatier. Et d'ajouter que le film marche beaucoup plus en province qu'en région parisienne. «Je crois que Pagnol touche la France profonde», dit-il. Il livre son explication du phénomène: «Pagnol, c'est un auteur total, avec un style et un langage qui rendent les histoires universelles.» En effet, comment expliquer qu'une histoire qui se déroule dans un bistrot typique de Marseille avec quatre hommes jouant à la manille ait pu intéresser la terre entière? Daniel Auteuil l'a bien compris: il prépare le deuxième volet de la trilogie.
Par Dominique Guiou, Mohammed Aissaoui, Philippe Claudel
Alors que tant d'auteurs du XXe siècle sont au purgatoire, l'écrivain et cinéaste séduit toujours. Une biographie, un film et une vente de manuscrits en témoignent.
• INTERVIEW - Jacqueline Pagnol: «Avec lui, rien ne semblait impossible»
• PORTRAIT - Conteur hors pair, infatigable inventeur
• Des mots chargés de lumière
• Il n'a jamais connu le purgatoire
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Jacqueline Pagnol: «Avec lui, rien ne semblait impossible»
Celle qui la première incarna Manon continue de faire vivre le souvenir de son mari.
Depuis la mort de Marcel Pagnol, le 18 avril 1974, elle veille scrupuleusement sur la mémoire de celui qui l'épousa en 1945 et dont elle fut l'inoubliable interprète -et la vedette de plusieurs de ses films, notamment Manon des sources.
LE FIGARO. - En épousant Marcel Pagnol, vous avez changé radicalement de vie…
Jacqueline PAGNOL. - Oui, j'avais vingt-trois ans quand j'ai commencé à vivre avec Marcel, et je ne l'ai plus quitté. J'ai choisi cette vie, près de lui, et je ne l'ai jamais regretté. Je n'ai plus fait autre chose qu'être à ses côtés, dans la vie quotidienne, bien sûr, mais aussi au cinéma, puisque je n'ai pratiquement plus tourné que pour lui… J'ai essayé, au début de notre mariage, de faire du cinéma sans Marcel. Mais je m'embêtais énormément. J'ai compris très vite que je n'avais pas envie de m'éloigner de lui. Il faut dire que la vie avec Marcel était merveilleuse.
Quel mari était-il?
Il avait un charme fou, il était irrésistible, constamment drôle. Avec lui, rien ne semblait impossible. Les obstacles, les difficultés semblaient s'éloigner comme par magie. Il avait le don d'aplanir la route devant lui. J'étais très sensible aussi à son côté Pic de la Mirandole. Il savait tout, avait réponse à tout. Mon fils et moi lui posions tous les jours des questions sur toutes sortes de sujets, et il répondait simplement. Tout semblait clair, facile…
Pendant les tournages, comment se comportait-il avec vous?
Il me laissait une entière liberté. Marcel n'était pas un cinéaste autoritaire. Je ne bénéficiais pas d'un régime de faveur. Il faisait confiance à ses acteurs. Peut-être un peu trop. Je ne le trouvais pas assez sévère avec moi. Je pensais que j'aurais pu être bien meilleure en étant davantage dirigée. Il n'avait pas l'exigence d'un Clouzot, par exemple, qui était impitoyable sur les tournages. Peut-être étais-je un peu maso, mais par moments j'aurais aimé retrouver l'atmosphère de mes années d'apprentissage du métier. J'avais un professeur de théâtre qui était terrible, qui insultait ses élèves, mais pour essayer d'en tirer le meilleur. Marcel, en revanche, n'intervenait pas. Son sens critique, il le réservait à ses propres travaux. Il lui arrivait assez souvent de me dire: «Tu vois, Jacotte, j'ai jeté ce que j'ai écrit hier. Ça ne valait rien.»
Comment se passaient les journées aux côtés de Pagnol?
Quand il ne tournait pas, les journées étaient très ritualisées. Il se levait très tôt et travaillait jusqu'à onze heures ou midi. Ensuite, nous déjeunions. Puis il y avait la coupure de la sieste, la sacro-sainte sieste. Pour rien au monde, il n'y aurait renoncé. Le jour même de son élection à l'Académie française, au moment où les Immortels ont rendu leur verdict, il dormait, comme si cela avait été un jour comme un autre. Quand l'Académie a appelé, c'est moi qui ai pris le téléphone, et je suis allée le réveiller pour lui annoncer son élection!
Après la sieste, vers trois heures, Marcel passait à l'atelier. Il bricolait, mettait au point des inventions. Il travaillait le bois -il adorait la menuiserie- ou faisait un peu de mécanique. Il lui arrivait aussi de fabriquer des jouets pour ses petits-enfants. Dès qu'il en avait la possibilité, Marcel aimait à se retrouver en pleine nature. C'était un homme très physique. Il avait besoin d'espace, de grand air, de soleil. Parmi tous ses dons, il avait aussi celui de sourcier.
Il s'est découvert sur le tard une passion pour les mathématiques et la physique…
Jusqu'à la veille de sa mort, alors qu'il était physiquement très affaibli, il a travaillé sur le théorème de Fermat. Le corps lâchait, mais l'esprit était toujours aussi vif. Il entretenait des correspondances suivies avec de grands mathématiciens.
Marcel Pagnol revoyait-il ses films avec vous?
Nous avons eu la télévision dès 1954. Il adorait ça! Nous regardions de nombreux programmes, il pensait que la télévision était un magnifique outil pour la culture du grand public. Quand ses films étaient programmés, nous étions devant le petit écran, bien sûr. C'est ainsi que quelques semaines avant sa mort, nous avons revu La Femme du boulanger. Marcel était alors très faible, en observation à l'Hôpital américain. Soudain, il me dit: «Mon Dieu que c'est mauvais…» Voyant mon étonnement, il esquisse un sourire, comme pour me dire de ne pas prendre au pied de la lettre ses propos. Quelques minutes plus tard, il soupire à nouveau: «Ce passage, il est encore plus mauvais que tout le reste… Et tu sais qui l'a tourné, Jacotte? C'est Jean Renoir. Il appréciait mes films, et il était venu me voir pendant le tournage. Moi, je l'admirais et, ce jour-là, il a dirigé le film à ma place.»
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Conteur hors pair, infatigable inventeur
Le parcours sans faute d'un touche-à-tout de génie.
C'est à soixante ans passés que Marcel Pagnol est devenu écrivain. En 1957, quand il commence la rédaction de ses souvenirs d'enfance, l'auteur n'a plus rien à prouver. On pourrait même croire que sa carrière est derrière lui. Ses personnages à l'accent marseillais ont fait connaître au monde entier une Provence à la fois mythique et réelle. Marius, Fanny, César, Panisse, Escartefigue… autant de figures qui ont quitté le folklore local pour faire partie de la famille universelle. Leurs répliques sont dans toutes les têtes: «Tu me fends le cœur», «Mourir, ça m'est égal, c'est quitter la vie qui me fait de la peine.» Pagnol, à l'Académie depuis plus de dix ans, a connu la gloire, les honneurs, l'argent. Et le bonheur. Il coule des jours heureux auprès de sa femme, Jacqueline, interprète lumineuse de Manon, et de son fils Frédéric. Comment pourrait-il imaginer que ces pages, destinées à l'origine au magazine féminin Elle, vont faire de lui l'un des plus grands écrivains de l'enfance, de ses jeux, de ses illusions et de son innocence?
Et pourtant, avec La Gloire de mon père, Le Château de ma mère et Le Temps des secrets, qui se réduisent somme toute à quelques étés passés dans un cabanon perdu entre Marseille et Aubagne, en compagnie de ses parents, de son frère, de son oncle et de sa tante, Marcel Pagnol va ensoleiller à jamais les lettres françaises. Son secret? Il tient en trois mots: simplicité, clarté, émotion. «Moi, disait-il, je n'ai jamais écrit que sur les lieux communs. De quoi parlent mes pièces et mes films? Du pain, de l'eau, de la mère, de l'enfant naturel, de choses toujours très simples… Ce qui est simple est émouvant, et trouve toujours le chemin du cœur.»
Néoréaliste avant l'heure
Pagnol saura mettre au jour comme personne la délicatesse des petites gens. De banales histoires de clochers, de maris trompés et de filles-mères sur fond de cigales et de lavande assureront la gloire à cet Aubagnais, fils d'un modeste directeur d'école communale. Mais c'est curieusement avec un personnage complexe, inquiétant, pour lequel son créateur n'éprouve aucune tendresse, que Pagnol obtint, à trente-trois ans, son premier succès public. Topaze, qui raconte la métamorphose d'un homme qui était la candeur et la probité mêmes en personnage cynique et corrompu, est loin, en effet, des âmes naïves qui peupleront ses pièces et ses films à venir.
Pagnol fut aussi, on le sait moins, un inventeur infatigable. Inventeur de nouvelles formes artistiques en étant toujours à la pointe des progrès techniques. Il fut l'un des premiers à faire du cinéma parlant, puis à utiliser la couleur. Il tourna nombre de ses films en décors naturels, avec une prise de son directe. Il fut néoréaliste bien avant les Italiens. Son ami Rossellini lui avoua: «Si je n'avais pas vu La Fille du puisatier, je n'aurais jamais tourné Rome ville ouverte.» Bricoleur génial, Pagnol mit au point dans les années trente une voiture de son invention, la Topazette, basée sur le principe du chiffre 3: 3 places, 3 portes, 3 roues, 3 litres aux cent. Enfin, il se découvrit sur le tard une vraie passion pour les mathématiques. Il affirmait à Jacqueline: «Tu verras, un jour ma gloire viendra du théorème de Fermat plutôt que de mon œuvre littéraire.» Pour une fois, il se trompait.
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Des mots chargés de lumière
Philippe Claudel, l'auteur des Âmes grises nous dit pourquoi il aime tant les livres et l'univers de Pagnol.
Parfois, en lisant un livre, on sent soudain que notre cœur s'emballe, qu'il bat plus fort et que notre poitrine s'étreint au point que nous nous demandons, pendant quelques secondes, si l'émotion qui nous envahit, et que les mots ont fait naître, n'est pas en train de nous retirer de la vie, de la nôtre en tout cas, pour nous amener vers un lieu d'incandescence que nous n'aurions même pas soupçonné, et que nous n'aurions jamais pu atteindre sans eux.
Les grands auteurs sont ceux-là justement qui parviennent, grâce à leur langue, à déchirer le rideau des apparences et des fausses séductions pour nous dévoiler la profondeur de nos misères, de nos beautés et de notre fragilité. Pour cette raison, j'ai toujours placé Pagnol en compagnie des plus grands, ainsi que dans la lignée de conteurs et de poètes de l'Antiquité pour qui le monde était une célébration et un temple frémissant de présences.
La beauté de sa langue tient à sa voix simple. Pagnol jamais ne s'encombre d'effets. Il dit les choses, comme un artisan parvenu au sommet de sa pratique après de nombreuses années d'exercice sait choisir le bon outil ou éliminer les ornements superflus. La voix simple de Pagnol est une voix profonde qui, à la façon d'un mistral chassant les quelques derniers nuages encore présents, établit un ciel pur et lumineux, qui devient un miroir dans lequel nous pouvons nous reconnaître. Les mots sont chez lui de purs cailloux ramassés dans le lit d'une claire rivière. Ils sont aussi chargés de lumière et de parfums. Lire Pagnol, c'est respirer, toucher, goûter, c'est apprécier l'ombre d'un puits, la fraîcheur procurée au plein midi par un muret de pierres sèches, la caresse d'un soleil de novembre sur les collines.
Ensorcelante beauté
Il y a chez Pagnol des phrases, des pages, que je connais par cœur, et j'emploie cette expression par cœur dans un sens presque littéral car il me semble que ce n'est pas ma mémoire qui les a retenues, pas plus que mon intelligence, mais bel et bien l'organe de sang et de vie dont on a fait le lieu métaphorique de nos sentiments.
Oui, c'est le cœur qui retient l'ensorcelante beauté de l'incipit de La Gloire de mon père, «Je suis né dans la ville d'Aubagne, sous le Garlaban couronné de chèvres, au temps des derniers chevriers». Et c'est encore le cœur qui garde comme un trésor rare et douloureux les lignes évoquant la mort de la mère, celle du petit frère et de l'ami d'enfance, le cher Lili, dans Le Château de ma mère . Je tiens l'avant-dernier chapitre de ce récit comme une des plus belles pages de la littérature française. Tout est là, en quelques lignes, de la beauté de nos existences, de leurs incohérences, de nos amours et de nos souffrances. Et cela est dit avec des mots de tous les jours, comme nous en avons tous dans nos poches, sans effet, sans esbroufe. À chaque fois, les larmes me viennent aux yeux, et ce sont autant des larmes de peine que de reconnaissance. Je pleure certes sur les fantômes évoqués qui me renvoient aux miens, mais je pleure aussi comme on ose murmurer un merci à celui qui a su si bien dire.
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Il n'a jamais connu de purgatoire
Ses pièces sont adaptées dans le monde entier. Ses films repassent à la télévision tous les deux ans. Et ses livres de souvenirs ont dépassé le cap des vingt millions d'exemplaires vendus.
Pour Bernard de Fallois, qui a été l'ami de Marcel Pagnol et qui reste l'éditeur de toute l'œuvre de l'auteur du Temps des secrets, il n'y a jamais eu de purgatoire pour l'écrivain provençal. Ses œuvres traversent le temps. Le fondateur des Éditions de Fallois explique ce phénomène par deux raisons. La première tient au fait que, malgré les innombrables adaptations, ses films et ses pièces continuent de passer et de repasser à la télévision. Un exemple: la trilogie (Marius, Fanny, César) est programmée en moyenne tous les deux ans; c'est sans doute la plus rediffusée, beaucoup plus que Guitry. Grâce à la télévision, Pagnol est devenu familier des Français de toutes les générations.
La seconde explication est plus psychologique. Selon l'éditeur, de tous les livres consacrés à l'enfance, ceux de Pagnol sont sans doute les plus joyeux et les plus souriants, sans être mièvres. Les enfants comme les adultes adorent. Résultat: les trois récits de souvenirs (La Gloire de mon père, Le Château de ma mère, Le Temps des secrets), conseillés par l'Éducation nationale, ont connu un succès considérable depuis leur publication en 1960 en édition de poche. Ils ont dépassé le cap des vingt millions d'exemplaires et on estime que de ses autres livres, notamment Topaze, on a vendu entre huit et dix millions d'exemplaires. Aujourd'hui, ses textes valent de l'or: les manuscrits de travail de Topaze et de Jazz, mis en vente mercredi par Sotheby's, ont été préemptés par la Bibliothèque nationale de France pour 28.000 €.
En fait, Pagnol, par la grâce de son écriture -théâtrale, cinématographie, romanesque- a créé un cercle vertueux. Ses livres nourrissent ses pièces qui nourrissent ses films qui nourrissent ses livres… D'ailleurs, il s'est adapté lui-même et a réalisé trois versions de Topaze, dont une avec Fernandel. Dès ses débuts, le potentiel de succès de ses histoires est repéré à Hollywood. Ainsi la Paramount est-elle la première à produire Marius et Topaze: c'était en 1931 et 1932. Topaze est son œuvre la plus adaptée dans le monde. Il a été traduit dans toutes les langues occidentales mais aussi en arabe et en chinois.
Un auteur total
La dernière adaptation cinématographique en date est sortie dans les salles le mois dernier. La Fille du puisatier a été réalisé et joué par Daniel Auteuil, césar du meilleur acteur avec Jean de Florette. Ce film est un succès. «Nous en sommes à un million de spectateurs, et ça devrait continuer», affirme Jean-François Robin, directeur de la photo du long-métrage et auteur du Journal d'un tournage: La fille du puisatier. Et d'ajouter que le film marche beaucoup plus en province qu'en région parisienne. «Je crois que Pagnol touche la France profonde», dit-il. Il livre son explication du phénomène: «Pagnol, c'est un auteur total, avec un style et un langage qui rendent les histoires universelles.» En effet, comment expliquer qu'une histoire qui se déroule dans un bistrot typique de Marseille avec quatre hommes jouant à la manille ait pu intéresser la terre entière? Daniel Auteuil l'a bien compris: il prépare le deuxième volet de la trilogie.
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