giovedì 28 gennaio 2010

INTERVISTA AD EDWIDGE DANTICAT

Europa.it quotidiano
22 gennaio 2010


Cultura -
«Noi haitiani, esperti in sopravvivenza»
Maria Zuppello


Edwidge Danticat, 41 anni, è una delle voci più famose della letteratura haitiana contemporanea. Trasferitasi da bambina con la sua famiglia negli Stati Uniti non ha mai dimenticato le sue radici.
In Italia di Edwidge Danticat sono usciti Fratello sto morendo, Amabelle della canna da zucchero (edizioni Piemme) che le ha valso il premio Flaviano internazionale, Parla con la mia stessa voce, Krik? Krak! (edizioni Baldini Castoldi Dalai).

Per giorni ha cercato notizie dei suoi parenti rimasti ad Haiti durante il terremoto.
È riuscita a sapere qualcosa?

La maggior parte di loro si è salvata. Ma ho perso mio cugino Maxo del quale avevo parlato in Fratello, sto morendo. E ho perso anche altri familiari a Leogane, fuori da Port-au-Prince. Desidero tornare ad Haiti il prima possibile ma per il momento i voli sono concessi solo ai soccorritori. Quello che posso fare allora è urlare al mondo quello che i miei cari mi stanno raccontando dall’isola.

Proprio in quei giorni ad Haiti era in programma una importante conferenza di scrittori (il “Festival des étonnants voyageurs” ndr). Molti di loro sono rimasti come atto di solidarietà. In catastrofi come queste quale può essere il contributo della letteratura?

Enorme. Perché è la prova di quanto lo spirito umano sia forte e capace di generare bellezza dall’agonia e dal caos.

Di che cosa gli haitiani in questo momento hanno urgente bisogno?

Da quello che mi raccontano parenti e amici ciò di cui si ha più bisogno in questo momento è l’acqua. Ma serve anche cibo e cure mediche per i feriti.
Sono in molti ancora adesso a morire per mancanze di cure. E poi tende. Più a lungo termine poi ci sarà bisogno di creare posti di lavoro per ridare una speranza a queste persone. E incentivare l’agricoltura che è una grande risorsa per il paese.

Lei vive a Miami, insieme a suo marito e a sua figlia, lontano da Haiti.
Pensa che gli statunitensi siano in grado di gestire al meglio la situazione adesso nella sua isola?

Siamo, credo un milione, noi haitiani residenti negli Usa e viviamo ogni giorno la nostra condizione ibrida. Questa è la nostra haitianité. Tra Stati Uniti e Haiti il rapporto è complesso. Sono quindi felice dell’aiuto che gli Usa stanno portando alla mia isola. Mi auguro solo che non facciano capolino antichi rancori e che si arrivino a bloccare gli aiuti provenienti da Venezuela e Cuba che per anni hanno dato una mano all’isola.

Uragani, terremoti, povertà, Haiti non è purtroppo nuova alle catastrofi. Come tutto questo ha modellato il modo di pensare e scrivere degli haitiani?
Il mio popolo è stato costretto per anni a dover sviluppare meccanismi di sopravvivenza.

Da sempre siamo stati bombardati da disastri politici e naturali. Questo paradossalmente ci ha aiutato a diventare non dei sopravvissuti ma degli esperti di sopravvivenza. Il che non vuol dire che viviamo solo il presente. Abbiamo sempre in testa ciò che accadrà alla generazione successiva. Quanto alla letteratura non posso generalizzare. La letteratura haitiana ha un po’ di tutto al suo interno. Alcuni scrittori sono più politici di altri ma in generale la mia è un’isola che ha prodotto davvero un buon numero di artisti, ispirati dalla bellezza di Haiti ma anche dalla sua tristezza.

Qualcuno ha parlato di Haiti come “isola maledetta”...

Gli Stati Uniti sono forse maledetti perché hanno avuto l’11 settembre? Il Giappone è maledetto perché soffre di terremoti continuamente? È un nonsense che è stato strumentalizzato perché in realtà Haiti è una nazione nera che ha sfidato il mondo per affermare il proprio diritto ad esistere. E ogni volta che i neri hanno in mano qualcosa si tira sempre fuori questa storia della maledizione. Chi dice questo sembra ignorare la storia della mia isola. Che fin dall’inizio ha dovuto pagare un prezzo pesantissimo alla Francia per ottenere nel 1804 la sua indipendenza, isolata come è stata dal resto del mondo dove la schiavitù ancora esisteva.
Haiti ha anche subito due invasioni statunitensi.
E durante la prima è stata utilizzata principalmente come fabbrica di legname con la conseguenza di una deforestazione senza precedenti. Il che non vuol dire che Haiti non abbia le sue responsabilità ma semplicemente che il mondo ha fatto tutto il possibile perché Haiti come stato fallisse fin dal primo giorno.

La letteratura haitiana ha tante facce.
È famosa per il suo humour e i loydians (racconti umoristici tipicamente haitiani, retaggio della tradizione orale) ma anche per aver affrontato la questione nera e la créolité (mescolanza di francese e lingua locale)...

Abbiamo perso con questo terremoto il grandissimo scrittore George Anglaise, una delle migliori voci della nostra créolité insieme a Charlot Lucine. Entrambi sono tra i più grandi studiosi di loydians che è diventato un modo di scrivere usato da tanti altri scrittori. È intimamente collegato al dono che la mia gente ha di raccontare storie, magari intorno ad un tavolo. È diventato quasi un modo di vivere che ha aiutato tanto la mia gente soprattutto nei momenti più difficili.

Pensa che dopo il terremoto scriverà qualcosa come hanno fatto molti scrittori dopo i fatti dell’11 settembre? Cosa la letteratura può aggiungere?

Al momento sto lavorando ad una raccolta di miei saggi, Create Dangerously, che uscirà in autunno negli Stati Uniti (Princeton University Press). C’è da dire che alcuni importanti scrittori haitiani, come Kettly Mars e Evelyne Trouillot hanno già scritto su cosa voglia dire sopravvivere ad un terremoto. Sono estremamente convinta che la letteratura debba testimoniare ciò che accade per permettere una migliore
comprensione della realtà, diversa da quella giornalistica, più profonda. Per primi arrivano i poeti, poi i musicisti e i pittori. Gli scrittori debbono arrivare per ultimi perché la scrittura richiede tempo per crescere e trovare la sua forma.