Prima o poi l’estate arriverà.
E’ scritto nelle pagine dell’Artico. Quelle sepolte tra i ghiacci. Che si sono seduti e hanno dimenticato la loro storia. Ora vogliono guardare al futuro. E prima o poi l’estate farà capolino. Un piccolo cenno. Un dettaglio d’intesa. Come tra due amanti pronti alla scintilla.
Prima o poi l’estate arriverà e l’Artico si fingerà equatore scardinando la roccia e facendone fuoriuscire foreste lussureggianti. I ruscelli divoreranno il pack e si ricongiungeranno al mare. Il freddo muterà la sua direzione e sposerà la corrente riscaldandola con il suo sperma. I crepacci smetteranno di urlare e si piegheranno all’inseminazione, accogliendola.
Arriverà il tempo dei fiori. E l’Artico a forza di contemplare la mutazione perderà l’equilibrio. Sarà la fine del mondo. O forse no. Di certo l’inizio delle parole che seguono. Che sono molte. E forse, per la geografia di quei luoghi, troppe. Sentieri, dunque da percorrere in silenzio.
“Le acque divennero poderose e si innalzarono sempre più sopra la terra e ricoprirono tutti i monti più alti che sono sotto il cielo”
la Bibbia
Sono scampata al diluvio universale.
Sono scampata all’ira di Catilina e alla guerra del ’15-’18.
Sono scampata al terremoto dell’Irpinia e all’eruzione di Stromboli.
Sono scampata a tutto questo e ad altro ancora.
Per il mio compagno George sarei quella che nel senso comune delle parole viene definita una sopravvissuta. Ma alla lettera. Io sto sopra a tutto: alle nuvole, alle teste delle persone, ai loro pensieri. Anche quelli più cattivi. Ci cammino sopra. Come Cristo sulle acque.
Sarei una sopravvissuta, direbbe il mio compagno George. Se avessi un compagno di nome George. E invece non ho un compagno di nome Gorge e nemmeno un compagno.
Ma resto lo stesso una sopravvissuta.
A me stessa.
In principio era il mondo. E su di esso una montagna di rifiuti. Un gigantesco cucuzzolo sulla cui vetta frammenti di lattine riuscivano ad emanare un bagliore primordiale: la prima alba del primo giorno di vita del pianeta.
Bucce di legumi, riso avariato, pacchi di giornali, bottiglie di plastica rese marce dalla contaminazione con schegge di piccole otri di birra, gusci d’uovo in virulenta decomposizione, chiodi per croci mai realizzate e solo desiderate, sacchi di nylon con e senza buchi, frigoriferi ammaccati, radioline e televisori ridotti ad inerti ammassi di valvole. Perfino ruote d’automobile. Come se da quel posto si potesse minimamente pensare di allontanarsi.
Anch’io sono un rifiuto. Ma non perché per guadagnarmi il pane quotidiano faccio di mestiere la guardiana della discarica e a forza di vederne di rifiuti io lo sia diventata per assimilazione. Sono un rifiuto perché tutti potenzialmente lo siamo. Io lo sono in atto.
Prendete una scatola di pelati, tre euro nel migliore supermercato della città. Così lucida e invogliante che la mangeresti tutta, insieme ai pelati che ci sono dentro. Tiri fuori i soldi dal borsellino. Paghi in contanti come tutte le cose che vuoi possedere con una certa intensità. Prendi l’autobus, scendi ad un Km da casa, te la fai a piedi per quel che ti resta di strada, arrivi in cucina tutta trafelata e sudata, ti prepari, infine, da mangiare. Senza quella scatola tu non potresti vivere. Nel senso biologico del termine. Mangiare per camminare, per pensare, per fare l’amore, per defecare. E’ nel momento in cui la lattina viene aperta che si compie il miracolo. Ma un miracolo al contrario. Solo che siccome non esiste la parola per esprimerlo resta un miracolo al contrario e basta.
Da quel preciso momento la lattina non serve più. Dopo aver assolto la nobile funzione di trasportare il Bello, il Buono, il Giusto comincia per lei un lungo viaggio alla rovescia. Da merce si trasforma in rifiuto. Mescolata agli odori della pattumiera smarrisce così i suoi confini. Perde valore. Per averne troppo avuto. La soluzione è una sola: allontanata. Come un bambino quando viene sbattuto in castigo. Allontanata. Magari riciclata. Che fa benissimo all’ambiente ma per una lattina è veramente umiliante.
Non chiedetemi perché io sia un rifiuto in atto. Non è importante. Lo sono e basta.
E vi assicuro che non è facile.
Patri, Fiddi e Spiriti Santi che tradotto dal siciliano all’italiano suona più o meno così: Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Lo ripeteva sempre mia nonna. Padre, Figlio e Spirito Santo. Ma io, in realtà, mi chiamavo Maria e il mio nome a quella triade aveva finito solo per creare un gran mucchio di problemi. Giustificava i tre ma nessuno, poi, si era preso la briga di una pur minima citazione.
Il mio nome era uno scandalo. Sarei finita con il diventarlo anch’io perché al proprio nome, anche se uno non se ne accorge, si obbedisce soltanto. Piegando ad esso l’intero destino.
Io ero uno scandalo. Il mio nome era uno scandalo.
Mio padre la notte stessa del battesimo vomitò. “Intossicazione alimentare”. L’episodio fu archiviato così. Ma dei trenta commensali che parteciparono al lauto banchetto fu l’unico a rimettere. Le cose, allora, erano due. O era un uomo molto fortunato (chi rimette si libera subito) oppure c’era dell’altro. Il mio nome era uno scandalo. Io sarei stata quella che ero: uno scandalo. Da qualcosa, dunque, bisognava pur cominciare.
Voltare pagina. Anzi, se possibile, cambiare quaderno. Ma non tutto si può dire. E’ il segreto di ogni scrittura capace di lasciare un segno. Anche solo un segno scritto. Quindi non aveva senso neppure prenderla in considerazione l’idea di voltare pagina. Niente pagina, dunque, niente quaderno. Solo un movimento dell’anima. Né un istinto né un desiderio. Un semplice movimento. Impercettibile come i gargarismi del ventre che in silenzio mantengono il ventre vivo ed elastico.
Andare in Antartide.
Voglio andare in Antartide.
Voglio, voglio, voglio. Punto. Il perché non è importante. Il perché è una somma. Mi tocca contare di nuovo. Aggiungere, sottrarre, ancora aggiungere. Ma è un calcolo algebrico che non trovando soluzione chiede aiuto alla geometria. In alto mare. Sono di nuovo in alto mare. E il mare è aperto.
Voglio andare in Antartide perché è l’Atlantide che ho sempre cercato. E non avendola trovata credo sia tutto un equivoco.
Voglio andare in Antartide perché sono contaminata. Ho bisogno di disintossicarmi. Ho bisogno del bianco. Magari sortisco l’effetto contrario. Ma voglio. Lo stesso.
Voglio l’Antartide per non provare più né caldo né freddo.
Per sentire i miei confini e una volta toccati vederli evaporare, come gli affreschi antichi al primo impatto con la luce moderna.
Perché nel cuore dell’Antartide l’acqua allo stato liquido non esiste. Se c’è devi scavare e in profondità. Quindi fai prima ad immaginartela.
Voglio andare in Antartide per rannicchiarmi una volta per tutte nel palmo della mano di mia madre e schiacciare finalmente un pisolino. E poi lì non c’è l’asfalto.
L’Antartide è il mio esercizio di stile. Il più importante. Il termoregolatore delle mie azioni quotidiane. Per arrivarci le prove che dovrò superare faranno di tutto per ostacolarmi. Non basterà il mio passato di ricercatrice né tantomeno quello di contaminata. Non basterà il lungo viaggio a bordo della Polarstern né tutte le facce che si sono sovrapposte nel corso di queste mie lunghe peregrinazioni. Non basterà. Dovrò fare appello a forze più lontane. Echi rimasti sordi dentro di me. Non so se sia una ginnastica adatta ad una donna di 31 anni. Ma so che non posso fare a meno di muovermi in questa direzione.
Se vorranno le onde sapranno condurmi. Devo solo lasciare che sia.
E’ scritto nelle pagine dell’Artico. Quelle sepolte tra i ghiacci. Che si sono seduti e hanno dimenticato la loro storia. Ora vogliono guardare al futuro. E prima o poi l’estate farà capolino. Un piccolo cenno. Un dettaglio d’intesa. Come tra due amanti pronti alla scintilla.
Prima o poi l’estate arriverà e l’Artico si fingerà equatore scardinando la roccia e facendone fuoriuscire foreste lussureggianti. I ruscelli divoreranno il pack e si ricongiungeranno al mare. Il freddo muterà la sua direzione e sposerà la corrente riscaldandola con il suo sperma. I crepacci smetteranno di urlare e si piegheranno all’inseminazione, accogliendola.
Arriverà il tempo dei fiori. E l’Artico a forza di contemplare la mutazione perderà l’equilibrio. Sarà la fine del mondo. O forse no. Di certo l’inizio delle parole che seguono. Che sono molte. E forse, per la geografia di quei luoghi, troppe. Sentieri, dunque da percorrere in silenzio.
“Le acque divennero poderose e si innalzarono sempre più sopra la terra e ricoprirono tutti i monti più alti che sono sotto il cielo”
la Bibbia
Sono scampata al diluvio universale.
Sono scampata all’ira di Catilina e alla guerra del ’15-’18.
Sono scampata al terremoto dell’Irpinia e all’eruzione di Stromboli.
Sono scampata a tutto questo e ad altro ancora.
Per il mio compagno George sarei quella che nel senso comune delle parole viene definita una sopravvissuta. Ma alla lettera. Io sto sopra a tutto: alle nuvole, alle teste delle persone, ai loro pensieri. Anche quelli più cattivi. Ci cammino sopra. Come Cristo sulle acque.
Sarei una sopravvissuta, direbbe il mio compagno George. Se avessi un compagno di nome George. E invece non ho un compagno di nome Gorge e nemmeno un compagno.
Ma resto lo stesso una sopravvissuta.
A me stessa.
In principio era il mondo. E su di esso una montagna di rifiuti. Un gigantesco cucuzzolo sulla cui vetta frammenti di lattine riuscivano ad emanare un bagliore primordiale: la prima alba del primo giorno di vita del pianeta.
Bucce di legumi, riso avariato, pacchi di giornali, bottiglie di plastica rese marce dalla contaminazione con schegge di piccole otri di birra, gusci d’uovo in virulenta decomposizione, chiodi per croci mai realizzate e solo desiderate, sacchi di nylon con e senza buchi, frigoriferi ammaccati, radioline e televisori ridotti ad inerti ammassi di valvole. Perfino ruote d’automobile. Come se da quel posto si potesse minimamente pensare di allontanarsi.
Anch’io sono un rifiuto. Ma non perché per guadagnarmi il pane quotidiano faccio di mestiere la guardiana della discarica e a forza di vederne di rifiuti io lo sia diventata per assimilazione. Sono un rifiuto perché tutti potenzialmente lo siamo. Io lo sono in atto.
Prendete una scatola di pelati, tre euro nel migliore supermercato della città. Così lucida e invogliante che la mangeresti tutta, insieme ai pelati che ci sono dentro. Tiri fuori i soldi dal borsellino. Paghi in contanti come tutte le cose che vuoi possedere con una certa intensità. Prendi l’autobus, scendi ad un Km da casa, te la fai a piedi per quel che ti resta di strada, arrivi in cucina tutta trafelata e sudata, ti prepari, infine, da mangiare. Senza quella scatola tu non potresti vivere. Nel senso biologico del termine. Mangiare per camminare, per pensare, per fare l’amore, per defecare. E’ nel momento in cui la lattina viene aperta che si compie il miracolo. Ma un miracolo al contrario. Solo che siccome non esiste la parola per esprimerlo resta un miracolo al contrario e basta.
Da quel preciso momento la lattina non serve più. Dopo aver assolto la nobile funzione di trasportare il Bello, il Buono, il Giusto comincia per lei un lungo viaggio alla rovescia. Da merce si trasforma in rifiuto. Mescolata agli odori della pattumiera smarrisce così i suoi confini. Perde valore. Per averne troppo avuto. La soluzione è una sola: allontanata. Come un bambino quando viene sbattuto in castigo. Allontanata. Magari riciclata. Che fa benissimo all’ambiente ma per una lattina è veramente umiliante.
Non chiedetemi perché io sia un rifiuto in atto. Non è importante. Lo sono e basta.
E vi assicuro che non è facile.
Patri, Fiddi e Spiriti Santi che tradotto dal siciliano all’italiano suona più o meno così: Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Lo ripeteva sempre mia nonna. Padre, Figlio e Spirito Santo. Ma io, in realtà, mi chiamavo Maria e il mio nome a quella triade aveva finito solo per creare un gran mucchio di problemi. Giustificava i tre ma nessuno, poi, si era preso la briga di una pur minima citazione.
Il mio nome era uno scandalo. Sarei finita con il diventarlo anch’io perché al proprio nome, anche se uno non se ne accorge, si obbedisce soltanto. Piegando ad esso l’intero destino.
Io ero uno scandalo. Il mio nome era uno scandalo.
Mio padre la notte stessa del battesimo vomitò. “Intossicazione alimentare”. L’episodio fu archiviato così. Ma dei trenta commensali che parteciparono al lauto banchetto fu l’unico a rimettere. Le cose, allora, erano due. O era un uomo molto fortunato (chi rimette si libera subito) oppure c’era dell’altro. Il mio nome era uno scandalo. Io sarei stata quella che ero: uno scandalo. Da qualcosa, dunque, bisognava pur cominciare.
Voltare pagina. Anzi, se possibile, cambiare quaderno. Ma non tutto si può dire. E’ il segreto di ogni scrittura capace di lasciare un segno. Anche solo un segno scritto. Quindi non aveva senso neppure prenderla in considerazione l’idea di voltare pagina. Niente pagina, dunque, niente quaderno. Solo un movimento dell’anima. Né un istinto né un desiderio. Un semplice movimento. Impercettibile come i gargarismi del ventre che in silenzio mantengono il ventre vivo ed elastico.
Andare in Antartide.
Voglio andare in Antartide.
Voglio, voglio, voglio. Punto. Il perché non è importante. Il perché è una somma. Mi tocca contare di nuovo. Aggiungere, sottrarre, ancora aggiungere. Ma è un calcolo algebrico che non trovando soluzione chiede aiuto alla geometria. In alto mare. Sono di nuovo in alto mare. E il mare è aperto.
Voglio andare in Antartide perché è l’Atlantide che ho sempre cercato. E non avendola trovata credo sia tutto un equivoco.
Voglio andare in Antartide perché sono contaminata. Ho bisogno di disintossicarmi. Ho bisogno del bianco. Magari sortisco l’effetto contrario. Ma voglio. Lo stesso.
Voglio l’Antartide per non provare più né caldo né freddo.
Per sentire i miei confini e una volta toccati vederli evaporare, come gli affreschi antichi al primo impatto con la luce moderna.
Perché nel cuore dell’Antartide l’acqua allo stato liquido non esiste. Se c’è devi scavare e in profondità. Quindi fai prima ad immaginartela.
Voglio andare in Antartide per rannicchiarmi una volta per tutte nel palmo della mano di mia madre e schiacciare finalmente un pisolino. E poi lì non c’è l’asfalto.
L’Antartide è il mio esercizio di stile. Il più importante. Il termoregolatore delle mie azioni quotidiane. Per arrivarci le prove che dovrò superare faranno di tutto per ostacolarmi. Non basterà il mio passato di ricercatrice né tantomeno quello di contaminata. Non basterà il lungo viaggio a bordo della Polarstern né tutte le facce che si sono sovrapposte nel corso di queste mie lunghe peregrinazioni. Non basterà. Dovrò fare appello a forze più lontane. Echi rimasti sordi dentro di me. Non so se sia una ginnastica adatta ad una donna di 31 anni. Ma so che non posso fare a meno di muovermi in questa direzione.
Se vorranno le onde sapranno condurmi. Devo solo lasciare che sia.
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