domenica 22 maggio 2011

IL BUCO DENTRO

Il buco dentro è il diario di una giovane donna che vive a New York ma che è di origine italiana e che soffre di vaginismo. Cercando di scoprire le radici del suo problema ritrova le radici della sua famiglia italiana e i misteri che ha tenuto nascosti per un secolo


IL BUCO DENTRO
di Maria Zuppello

Questo libro non è dedicato a qualcuno in particolare.
Né a qualcosa.
Solo all’aria.
E a tutti i grumi di polline che ha seminato sul mio cammino.

Se i libri si potessero scrivere non più su carta ma su cubi di plastica questo libro troverebbe la sua giusta collocazione. E la sua corretta modalità di lettura.
Un cubo è un volume tra i volumi, occupa uno spazio, modifica il percorso dell’aria. C’è e la sua presenza non si può negare. E richiede per la sua pesantezza validi argomenti di conversazione.
Se “Il buco dentro” fosse pubblicato su un cubo tutte le voci in gioco troverebbero appropriata la loro altezza e l’angolatura del loro ripiano. Ma riportato su carta perde ogni dimensione richiedendo al lettore uno sforzo supplementare. Per agevolare il quale diremo solo che le parti indicate in corsivo non sono la voce di Dio ma quella di uno qualsiasi di noi, di un passante di New York che passando attraversa, i luoghi come le persone e le storie che gli vengono incontro. Non è dunque dal cielo che si parla ma dai marciapiedi della città, tra i più flautolenti. Non c’è nessuna prospettiva più alta ma tutte le voci scorrono parallele fra loro. E se qualcuna vede più di altre è solo per intuizione che da che uomo è uomo è sempre solo un’inizio e mai una conclusione. I personaggi che attraversano questo libro parlano dunque dalla stessa altezza ma vedono cose molto diverse. Mistero dello sguardo e delle lenti a contatto. Che di questi tempi fanno veramente miracoli.

Gli enzimi erano quelli. E non ci si poteva fare nulla. Enzimi digestivi capaci di ospitare nel proprio intestino Protozoi Flagellati Simbionti. Tutti insieme se la divertivano. Uno spasso inesauribile. Eppure i tarli sono minuscoli. Eppure il legno a disposizione era poco.
Xilofagi. E se non bastava anche corticicoli-lignicoli Con larve che si nutrono di floema e che al momento dell’impupamento scavano nello xilema gallerie a diversa profondità.
Ma ci avete capito qualcosa? Io francamente no. Il mio cuore si arresta davanti a queste parole. E con il cuore anche il respiro. Per un medico sarei già morta E, invece, dormivo soltanto. Ignara perché quando si dorme si fa finta di dimenticare. Almeno per qualche ora. Nell’altra stanza. Nella mia camera da letto. Nel mio letto. Sotto le mie coltri.
Distante, dunque.

Il mobile è arrivato stamattina. 23 minuti i facchini ci hanno messo per portarmelo in casa, comprese le operazioni di carico e eliminazione dell’imballaggio. Non un colpo e via. 23 minuti. E disimballarlo è stato un po’ come trovarsi nel pieno di un’operazione chirurgica. Levare, levare, levare. Fino ad arrivare al cuore, dentro. Ma lì scopri che c’è solo un buco. Noi siamo buchi. Anche il mio mobile era pieno di buchi. Questo, però, l’ho saputo solo dopo. Di notte mentre dormivo nell’altra stanza, l’ingresso rettangolare 3, 27 per 2,15, dentro l’ingresso, dentro il mobile nell’ingresso, 725 tarli avrebbero scavato km di gallerie. Una città sotterranea. Dentro ad un mobile, il mio mobile.

E’ alto 1m e 20, largo 70 cm, profondo 25. E’ verde. Ma un verde che non ricorda né l’acqua né le finestre.E infatti non è il suo colore originale Il mobile è antico, vecchio, a seconda del modo in cui lo si guarda e dell’occhio. Se si portano le lenti a contatto o no fa la differenza. Risale alla fine dell’800. Ma a me sembra nuovo, nuovissimo, anzi a volte ho la sensazione che sia un bambino che deve ancora nascere. Io lo aspetto sempre, lo aspetto quando torno a casa. Eppure dovrebbe essere il contrario, lui che è a casa a dover aspettare me. E invece non è così perché io non sono il Figliol Prodigo, non lo sono mai stata, mai lo sarò. E quindi non torno mai. Sto. Anche quando vado. Sto. Ma a me va bene così.
Il mobile è’ di provenienza francese. Solo in Francia li facevano così. Debbo crederci. Io di mobili antichi non capisco proprio nulla. Ma a me quel mobile ha fatto venire da subito il nodo alla gola. Forse abbiamo dei conti in sospeso. Io e la Francia o io e il mobile, questo ancora non l’ho capito.
Il mobile proviene dalla casa di mio nonno materno. Una grande casa nell’Italia del Sud, in basilicata, che oggi si definirebbe di campagna ma che un tempo a chi ci abitava pareva eretta al centro dell’Universo. Era appartenuto alla mia bisnonna, Florinda Mazziotta, morta di spagnola nel 1918 all’età di 44 anni.

Dentro al mobile non c’è nulla. Adesso, per lo meno. Nel passato deve essere stato usato come madia, conteneva servizi preziosi e cristalli raffinati. O almeno, questa è l’idea che mi sono fatta io. Il passato è bello per questo. Che è passato e quindi te lo puoi immaginare.

Io immagino molto. Anche nel presente. Che finisce sempre con il diventare il mio futuro e quindi è sempre lontano. Fantastico in metrò, al lavoro, perfino quando guardo un film. Le mie immagini cancellano di getto tutte le altre. Divento Dio e creo il mondo a mia immagine e somiglianza. Immagino sempre, per la mia creazione non c’è battuta d’arresto. Non ho bisogno del giorno di riposo, io.
Immaginando riempio i buchi. I miei tarli scavano buchi nel mobile (ma ancora non lo so). Io, invece, i buchi li riempio.

Soffro di vaginismo dall’età di 4 anni e mezzo. Ma me ne sono accorta molto tempo dopo. Succede sempre così con il vaginismo. Lo covi per anni quando neanche sai cosa vuol dire e poi te lo ritrovi dentro fra le pieghe delle tue viscere. Non ti abbandona mai. Come Dio per chi ci crede.
Io in Dio non ci credo. Sulla sua esistenza, voglio dire. Semmai è un problema suo se esiste o meno. Io di problemi al momento ne ho già tanti. Così tanti che si parano davanti come muri. E io ci sono chiusa dentro. Dentro devo ripensare al passato. Ma non devo immaginarlo, stavolta, devo pensarlo. E’ quello che mi dice Melanie ma ancora non ho capito bene la differenza. Comunque io a Melanie ci credo. Non credo in Dio ma a Melanie si. Melanie è una persona. E’ la mia terapista. E’ una donna bellissima. Non è bellissima perché è la mia terapista. Ma è la mia terapista perché è bellissima. Ho sempre pensato che le persone molto belle dovrebbero condurre il mondo, deciderne le linee guida, ribaltarlo. E noi dietro a loro. Melanie è bellissima perché tutte le parti che la compongono insieme stanno benissimo. Hanno un loro perché e non hai più bisogno di farti domande te, che le guardi, te che la guardi.
Sono in cura da 4 mesi. Se ripenso al giorno in cui ho deciso di andare da Melanie non mi viene in mente nulla: né pensieri, né immaginazioni. Solo un buco, un buco dentro. Che poi si è trasformato in galleria. Che poi mi ha fatto veder una luce. Lo studio di Melanie è in fondo ad un grande stradone, dove neppure la metro arriva. Devo fare 25 minuti a piedi, 23’38 se l’unico semaforo che trovo sul cammino è completamente verde. Ho cronometrato tutto. Fin dall’inizio. Per non perdermi, per ritrovare la strada. Questa è l’unica cosa che mi ricordo. E questo buco, ripeto. Te lo senti sullo stomaco, il buco, se proprio devo localizzarlo. Melanie ha a che fare con questo buco, riempie i buchi Melanie, per professione. Al contrario dei tarli del mio mobile. Ma io ancora non mi sono accorta di nulla (...)

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