domenica 22 maggio 2011

MIO PADRE STA SCRIVENDO UN ROMANZO

Storia di una figlia e di un padre e del cancro che sembra separarli. Si ritroveranno invece attraverso la forza della scrittura.


MIO PADRE STA SCRIVENDO UN ROMANZO
di
Maria Zuppello


A mio padre,
che ha sempre portato il suo remo in spalla.

A mio marito Paolo,
fondamenta della mia esistenza
A Barbara,
divisa dall’oceano, unita dal destino.
A Regina, Pinuccia e Paolo
E al loro talento nel rendere lievi le spine.



Fortuna è una parola priva di significato.
Nulla esiste per caso
Voltaire


E’ il grande romanzo della tua vita e un pò anche il mio. La penna in mano è qui, il foglio bianco ancora non ci è stato portato ma ci hanno assicurato che arriverà presto. In questa locanda dell’attesa tutto può accadere. Poi non ci resterà che cominciare, assecondando le pieghe della nostra carne. Ognuno le sue. Ma i miei capitoli si muoveranno paralleli ai tuoi e il finale aperto o doppio o triplo, se ce ne dovesse essere bisogno.
Non ti auguro buon viaggio perchè quando si scrive non si viaggia. Si diventa il viaggio.


L’INCIPIT

Non comincio dall’inizio perchè il senso di ogni diario forse è quello di arrivare quando meno te lo aspetti. Non c’è niente di meno cronologico di un diario. Le date che si appongono in calce servono solo a giustificarne il suo posto nel mondo. Perchè quello che succede oggi in realtà è pure nel domani e nel passato forse è già accaduto. Così come la speranza.
L’unica certezza è il racconto della vita. Che appare, scompare, fa mille passi in avanti, si volatilizza, ritorna. E per ciascuno ci sono una velocità e un passo appropriati. La mia storia, in realtà, ha inizio a febbraio quando hai ricevuto la diagnosi o forse molto prima, quando sono stata concepita. O forse più avanti, quando nella terra ritornerò, quieta. Prendendomi amorevolmente cura.
Comincio oggi per caso. In questa apparente progressione delle pagine provo ad ingannare l’attesa. Da ieri a mezzogiorno è cominciato il conto alla rovescia. Siamo in attesa di ricevere una telefonata dall’ospedale che ci dica quando potrai essere ricoverato. In attesa che il telefono squilli come una sveglia che scuota dal torpore immobile. Dunque scrivo per ricordarmi in futuro di questi giorni e del mio stato d’animo o forse per dimenticarli del tutto. Questo lo capirò solo più avanti.
Il tuo foglio non aggiunge altro. L’ho trovato in cucina, sul mobile davanti al quale chiunque venga a trovarti può passarvi davanti. “Studio 02.456345”. Un numero di telefono che è una promessa di continuità. Lo studio è quello del medico dove hai ricevuto da solo il verdetto. Carcinoma all’esofago.

Deve essere il senso del dovere che non mi lascia tregua neanche di fronte ad un foglio bianco. Rieccomi qui a scrivere. Il telefono ancora non ha squillato. Sei uscito a fare una passeggiata, rientrato, ti sei concesso perfino il sonno pomeridiano. Io rigida vicina al mobile in cui il telefono giace morto. Nessun ricovero per il momento. Dunque nessun inizio di cura. E allora mentre le dita scivolano sul tavolo per ingannarsi e procedono di loro la testa va in automatico, costruisce elaborate strutture mentali, per poi uscirne e rientrare in nuove, un tunnel del pensiero in cui non c’è fine. O forse sono io che mi rifiuto di vederla.
La telefonata non arriva ed io ce l’ho con il mondo intero, con i medici irresponsabili, con il direttore sanitario che li guida, con l’ospedale intero che si erge tempio muto senza pietà per i suoi adepti, con il paese intero che lascia ancora i malati di cancro da soli. Ce l’ho con te che non mi hai raccontato subito cosa stesse accadendo nel tuo corpo. Ce l’ho con il silenzio che crea il tabù proprio quando bisognerebbe liberare adesso tutti i freni inibitori. Sono contro tutti oggi. Ma la rabbia genera solo versi. E questo mi fa arrabbiare ancora di più.
Gesti coordinati come fossero parole, sparse in attesa di un discorso. Mi muovo così, sul filo del silenzio, ragno che produce la tela necessaria alla tua protezione. Abbandonati a te.
Per oggi basta. A forza di scrivere, il telefono mi punisce con il suo silenzio.

Hai scoperto il male da solo. Era dentro di te ma l’hai ricacciato dentro. Lui però è avanzato di nuovo e per quanto tu ti sforzassi a buttarlo indietro la sua controspinta è stata più forte.
“24 febbraio” leggo nel foglio che ritrovo infilato sotto la pila di libri, poggiati sulla scrivania del tuo studio. Deve essere quello il giorno in cui ti sei ritrovato davanti ad un referto che non ammetteva repliche. E’ di te che si parlava e l’ultima parola non sei stato evidentemente tu ad averla. Il foglio lo hai nascosto. Per dimenticarlo o per costringermi alla caccia al tesoro?
La tua circonferenza esistenziale si è ristretta all’improvviso. Ti immagino così davanti a quel foglio da leggere. Letto. Da rileggere e via ancora, quasi all’infinito per impedire alle parole di trascinarsi stanche ma affamate dalla carta alla realtà. Il regno della malattia è un regno individuale e nel tuo caso non c’è contagio, come succede con la scrittura. Il dolore non ha centro nè periferia. E anche per la scrittura è così. Però il tuo cancro si è tutto concentrato in un punto, l’esofago. Un sole nero che trasforma i solidi in liquidi e i gas in solidi. Una rivoluzione interiore. In fisica si chiamano cambiamenti di stato. E cambiano le relazioni delle molecole nel passaggio da uno stato all’altro. Così è adesso per te. Ma non ci sono le parole per dirlo.
Hai paura di non riconoscerti più nel tuo nuovo corpo. Questo devi aver temuto quel giorno. Con chi eri, se eri con qualcuno, come eri vestito, pensando a cosa ti eri svegliato quella mattina sono adesso interrogativi inutili anche se non smetto di formularli in continuazione. Rivivo un giorno in cui non c’ero. Il più brutto della tua vita. La diagnosi del tuo cancro. Il dolore poi deve aver preso il posto del dispiacere. E della noia. E dell’incuria. Si è infilato, si è allargato, si è riunito a se stesso fino ad invadere tutto. L’occupante non teme barricate nè cauterizzazione, agisce a macchia d’olio. Io adesso assisto a questo spettacolo, che riscostruisco immaginandolo, senza dire una parola.
Mi chiedo se fossi stata al tuo posto come avrei reagito. Mi sarei infastidita probabilmente di fronte al tempo che si riduce drastico, sono tante ancora le cose che debbo fare, penso, prima di andare. E tu? In questa sottrazione spietata cosa avevi in mente di compiere che ora non potrai? Chissà quali erano i tuoi piani. Ora riduci i tuoi gesti quotidiani al minimo. Economizzi energie e parole. I pensieri non so. Magari ti si sono moltiplicati, portandoti in un altrove che è già una benedizione. E’ difficilissimo starti accanto. Tradisco la volontà e i sentimenti dunque rimanendoti vicino.

Non smetti di allenarti. Sono venti anni che corri, tre volte a settimana, rigorosamente all’alba più la corsa della domenica, perchè dovresti smettere proprio adesso? Le scarpe sono quelle di sempre, anche i calzoncini e la radiolina. La maglietta no, senti più freddo da quando ti hanno scoperto il male dentro. E anche il corpo sembra andare continuamente da una parte opposta alla direzione che desideri. Un’entropia, la tua vita adesso è un’entropia.
Resisti all’inerzia della malattia correndoci sopra. E dentro.

Il telefono non squilla ancora anche se l’eco di ciò che attendo è diventata la vibrazione sonora di tutti gli oggetti di casa. Mi illudo di udirne l’inconfondibile trillo perfino sotto la doccia. Ma volatilizzato in rapidi istanti l’effetto sonoro, resta solo il riverbero dell’acqua che scivola sui vetri. Non è fontana di suoni, per me è acqua e basta, foriera di niente se non del suo presente. Tu non mi sorridi da giorni, da quando ho preso il mio aereo e sono corsa a casa tua con la scusa di un visto senza il quale non avrei potuto vivere nella mia nuova patria. Se è un piano che hai in mente sei bravissimo perchè con me riesci a non far trapelare neanche un’emozione. Sei avaro di parole, di sorrisi, di buone azioni. Anzi sembri subliminalmente soddisfatto se qualcosa di doloroso mi accade. Con gli estranei sorridi, parli, arrischi perfino battute. Da me ti schermi con il gelo del silenzio. Sono forse io l’unica vera estranea per te? Me la sono fatta la domanda ma non davanti allo specchio perchè solo quell’interrogazione mi avrebbe rattrappito in una smorfia. Ho preferito non vedere.
Ti sono estranea. La grande estranea. La comunione ti fa paura e il tuo cancro a questo ti vorrebbe costringere. Ad entrare nel profondo delle cose, a vedere se c’è qualcosa dietro i sentimenti, a sentirti parte di me e io con te. Forse vuoi solo risparmiarmi il dolore, quello pieno dell’impotenza. E allora ti ripari dentro un dolore che dovrebbe sembrarmi più piccolo. Ma non riesco più a vedere confini. Sono dentro il mondo ma il mondo dentro di me non riesco più a contenerlo. Il suo peso non mi è più lieve.

La lavatrice gracchia senza sosta. E’ così che manifesta agli altri e a se stessa il suo essere viva. Sul suo ripiano in plastica giace un altro foglio vergato di tuo pugno. E’ il terzo che trovo in pochi giorni. Troppo per uno come te abituato a centellinare le parole e solo a pronunciarle. Come se stessi davvero scrivendo un romanzo.
La lavatrice si muove di vita propria, con i ritmi che le programmano il respiro, i programmi che le impongono le frasi da dire. Io continuo a pensare. E i pensieri sono così tanti e tutti così desiderosi di farsi largo che alla fine si schiacciano da soli e la testa rimane pesante e vuota. Non ho mai trovato tanti fogli scritti di tuo pugno come in questi giorni. Stai scrivendo un romanzo. Ma è un’ipotesi non percorribile. E anche questo pensiero ritorna in quel magma informe da cui è emerso. Tu hai sempre preferito la voce alla scrittura, questo mi è sempre stato molto chiaro. Perchè la voce arriva all’improvviso e muore nello stesso momento in cui nasce. No, non stai scrivendo un romanzo.
Nell’ultimo foglio che ho trovato però, rispetto ai precedenti, pur inseguendo la schematicità delle frasi ti sei dilungato nei periodi. Sembra che tu voglia raccontare qualcosa. E raccontare di più. Il testo forma geometrie nelle quali imbrigli adesso l’esistenza e le sue regole. Una possibilità di scrittura anche questa. O forse ti stai semplicemente limitando a trattenere la vita attaccandoti a tutto. Anche ad un pezzo di carta.
Comincio a leggere in attesa del colpo di scena. Se è un romanzo deve per forza esserci un colpo di scena. Ma non può essere un romanzo.
“Inserire il detersivo nella vaschetta di sinistra.
Mettere la biancheria e chiudere lo sportello.
Spostare la manopola di estrema destra sul programma “40 delicato”. Le altre manopole non vanno toccate.
Premere il tasto avvio/pausa.”
Sono le istruzioni della lavatrice che hai scritto. Immagino che il foglio sia indirizzato a me visto che in casa a parte te e adesso me non c’è nessuno. Queste parole sono nate e morte solo per me. La mia schiena si riallinea su se stessa, un movimento improvviso raddrizza la sua postura nel mondo e mi inorgoglisce.
Rifletto sul foglio che hai lasciato. Ogni frase di quelle che hai selezionato è un’azione e ogni azione ne genera un’altra. Alla fine si approda ad un risultato che è il trionfo del pulito sullo sporco, e via di metafora del bene sul male, del sano sull’insano anche se questo non lo scrivi. Tutto solo con una lavatrice in scena. Una macchina. E’ la scrittura con più alto senso morale che mi sia capitata finora sottomano. Ed è tua. Stavolta il biglietto me lo prendo, lo ripiego e lo nascondo furtivamente in tasca. Sto cominciando a rubare. A casa mia. I capitoli del tuo libro.

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