domenica 22 maggio 2011

L'ENIGMA DI WASHINGTON SQUARE

E' una delle amicizie più misteriose della storia della letteratura, quella tra Mark Twain e Robert Louis Stevenson. Questo romanzo per il quale ho viaggiato in tre continenti prova a ricostruirla. Così.

L’ENIGMA
di
WASHINGTON SQUARE
LA STORIA MAI NARRATA DELL’INCONTRO TRA
ROBERT LOUIS STEVENSON E MARK TWAIN

di
Maria Zuppello


A mio marito Paolo, primo dei miei lettori, meraviglioso compagno di viaggio
Alla mia famiglia e a mia madre, eterna vestale della mia esistenza
A Lara e alla sua generosità straripante
A Simonetta Agnello Hornby per i suoi materni consigli


Come un’introduzione

Non esistono biografie definitive mi disse una volta il grande giornalista brasiliano Alberto Diniz. Per fortuna non ho voluto scrivere una biografia. Ma con il passato da reporter che mi ritrovo è stato inevitabile partire dai fatti. E proprio per la ricerca dei fatti sono stata premiata con una borsa dal Center for Mark Twain Studies, la più importante istituzione statunitense e mondiale dedicata all’icona della letteratura americana, Mark Twain. Per un mese ho potuto vivere, scrivere, fare ricerche, in una delle dimore più amate dall’autore di Tom Sawyer. Quarry Farm, la casa delle sue vacanze, ad Elmira, nello stato di New York. Grazie all’aiuto della direttrice del Center Barbara Snedecor e dell’infaticabile responsabile della Biblioteca dell’Elmira College Mark Whoodhouse che qui ringrazio personalmente ho potuto, così, spiare da vicino i fantasmi che per tre anni mi hanno accompagnato nei miei viaggi nei Mari del Sud. Non mi hanno cacciato e di questo sono loro debitrice.
Ma raccontare la storia dell’incontro di Mark Twain e Robert Louis Stevenson, cioè i due più importanti scrittori anglofoni della seconda metà dell’ottocento, non è stato facile. Su questa “association”, come fu chiamata già da alcuni biografi dell’epoca, è calata una strana avarizia di parole.
Ecco, io sono partita proprio da questo. Dal silenzio che ha circondato quell’incontro. Laddove finivano i fatti allora non poteva che cominciare il romanzo.

OVUNQUE,
l’incipit


SOSIMO
Sosimo. Il mio nome è Sosimo. Ma in samoano non vuol dire nulla. Meglio, meno problemi. Il destino non è scritto nel mio nome. Debbo vivere e non pensare ad altro. Sono solo un testimone. Quello che posso dire è che il veleno era stato somministrato un poco alla volta. Ogni giorno, probabilmente alla stessa ora, in pieno rispetto delle inclinazioni del sole e dei suoi piani di intersecazione con il paesaggio circostante. 10 ml. Ma il largo bicchiere di vetro non ne ha mai lasciato trasparire né il colore né l’odore. Non ho nulla da rimproverarmi io. Perfetto nel movimento, non una sbavatura, non un accenno di caduta. Tutti qui nella casa di Vailima lo pensano. Che il servitore personale di Robert Louis Stevenson gli è stato fedele anche nei dettagli.
Tutti i giorni alla stessa ora. Mi recavo in cucina, aprivo la madia foderata di tapa, attingevo con misurata generosità al prezioso dono, una lunga e affilata bottiglia. Incolore. Poi salivo le scale per arrivare fin su nello studio dello scrittore. Che al rito quotidiano non si è mai sottratto. Così, tutto d’un fiato la medicina andava giù. Mentre davanti alla finestra l’Oceano Pacifico si stendeva largo sulla costa samoana. La morte per il mio padrone, lo scrittore famoso in tutto il mondo per i suoi racconti di avventura, è arrivata qui nella casa dell’isola di Upolu, nei Mari del Sud. Forse per avvelenamento. Forse no. E’ stato sicuramente omicidio.
Perché i nostri antenati a Samoa dicevano che si muore uccisi ogni volta che qualcuno seppellisce i nostri desideri prima ancora di aver seppellito i nostri corpi.

ROBERT LOUIS STEVENSON
I morti non parlano e se parlano possono dire cose sconvenienti. E’ per questo che la maggior parte di loro si tace. Debbo dunque ponderare le parole come se fossero pesi. Dosarle. Dirò l’essenziale. Che il mio nome è Robert Louis Stevenson e che tutto comincia sempre molto prima. Che i fatti avvengano e che i corpi si creino per animare quei fatti. Prima dei pensieri. Che sono il filo che muove ogni cosa.
Prima di Samoa nei Mari del Sud, dove mi trasferii per aspettare la morte, ci furono tre viaggi nel Pacifico e prima ancora qualcosa, nella mia testa. In un punto invisibile. Non era un pensiero ma qualcosa che lo precedeva. Un nucleo dotato di una sua massa. Atomi. Sì atomi. Dovetti, dunque, solo aspettare. E non importava che fossi uno dei più importante scrittori anglofoni di metà ottocento. Dovetti aspettare e basta. Che si creassero i corpi e che i fatti avvenissero. Mi misi in attesa.
Poi arrivò il momento. E anche per me fu possibile accedere al tesoro che avevo trovato solo a parole, con la mia “Isola del tesoro” avevo venduto migliaia e migliaia di copie in tutto il mondo. A diradare le nebbie dell’attesa e rendere possibile l’azione fu la morte di mio padre. Come se le profondità dell’io avessero bisogno di quel silenzioso assenso per concedersi altro. Accadde l’8 maggio 1887. Non andai al funerale. Ma non era una novità, con mio padre Thomas non sono mai andato d’accordo, anche se mantenevamo le apparenze. Però l’ultima finzione no, non ho voluto concedergliela. Il feretro ha sfilato per le vie di Edimburgo, come è costume da noi in Scozia. Ma io non c’ero. Il vuoto è stata la mia conclusione. Lo scrittore in famiglia, del resto, sono io.
Così, finite le cerimonie ed esaurite le sepolture, ricomparvi. Potevo finalmente adesso salpare gli ormeggi. Ma per dove? Dopo aver tanto atteso, una vaga eccitazione si impossessò di me, così vaga che non mi fece intravedere la rotta. I Mari del Sud non arrivarono subito, erano troppo lontani. Prima serviva l’incipit e l’incipit fu Manhattan, la prima della lunga serie di isole che avrebbero attraversato la mia esistenza frantumandola. Prima del salto. L’ultimo.
Lo avevo fatto in passato, negli Stati Uniti ero già venuto, ma questa volta era diverso. Perché questa era la volta per tutte, da cui non sarei mai più tornato indietro. L’irreversibilità cominciava a formularsi come valore unificante della mia esistenza. Ma questo ancora non potevo saperlo. E non sapevo neanche che l’assenza del mago non smorzava l’incantesimo. Se mio padre era stato l’ostacolo principale in cima a quell’atomo nascosto nella mia testa, con mio padre prima o poi sarei tornato a fare i conti. Anche se ormai da mero fantasma. New York mi parve un buon inizio per ricominciare ma solo un inizio.
Gli Stati Uniti furono la pedina decisiva nella mia scacchiera geografica. Non solo perché si trovavano esattamente a metà nella mappa del percorso che mi avrebbe poi portato nei Mari del Sud ma perché qui avvenne un fatto. In realtà ne avvennero molti. Ma uno solo riuscì ad isolarsi da tutti gli altri. Perché in apparenza il più insignificante. Si isolò per rimanere sullo sfondo ma si solidificò a tal punto da trasformare interamente la materia di tutti gli altri fatti che, invece, erano in primo piano, e della mia stessa anima. Posso affermare con certezza che i Mari del Sud ne divennero addirittura il suo corollario.
Ora, in quel fatto non c’era stato spargimento di sangue, né colore. Anzi tutti i colori erano sfumati via, come se ci avesse piovuto sopra per anni. Perfino le forme sembravano pronte a sparire, solo un colpo di pennello avrebbe potuto resuscitarle. E così fu. Ma il colpo vibrante fu sferzato qualche anno più tardi, a 10 mila km a est, a Tahiti in Polinesia francese. Da un pittore di nome Paul Gauguin. Che consegnò alla bellezza le forme più nascoste di quel fatto. Sopravvissuto a se stesso e ai personaggi di cui si era servito per esistere. A partire dal sottoscritto.
Si badi, non era stato quello un delitto, il sangue a New York si paga caro e non ripaga delle fatiche intraprese per raggiungere la città, però avrebbe permesso di capire il perché del mio omicidio a Samoa. E non era stato neanche un furto perché nulla venne tolto ma semmai molto aggiunto. Quel fatto, insomma, così difficile da descrivere e riprodurre avrebbe aiutato a comprendere molte cose. Tra cui il senso della mia traiettoria, da New York ai Mari del Sud e di quella più profonda, che nessuno vede.

MARIA
Dovevo andare sul K2. Faccio la reporter televisiva e può succedere. Invece, per un problema di diritti televisivi che, all’ultimo, mi hanno impedito di seguire la spedizione italiana nel cinquantesimo anniversario della presa della vetta, mi sono ritrovata su una nave cargo. Ma non era una nave qualsiasi e avrei dovuto capirlo dal nome: Aranui, che in taitiano significa “Grande Viaggio”. E il viaggio era alla lettera proprio grande perché mi avrebbe portato dall’altra parte del pianeta. In Polinesia, nel cuore dell’Oceano Pacifico, che da solo rappresenta 1/3 della superficie dell’intero pianeta.
Lì sarebbe accaduto qualcosa. I miei passi sulla sabbia avrebbero seguito le orme di un uomo che è vissuto più di cento anni fa. Un uomo che è stato 60 % scrittore, 40% avventuriero per sua stessa definizione: Robert Louis Stevenson. L’acqua, almeno in quella parte di mondo, non ha avuto il coraggio di cancellare le sue orme.
Il libro che ne è venuto fuori non è una dissertazione scientifica, non è una tesi di laurea, non è un saggio letterario. Non è neanche una guida turistica perché non propone alcun percorso anzi li mescola tutti. Ma non è neppure un romanzo né tantomeno uno yarn, cioè uno di quei racconti di marinai scivolati di bocca in bocca nelle navi e nelle taverne dei porti del Pacifico. Non è poesia.
Questo libro è piuttosto la cronaca fedele di uno strano incontro, di tre persone che
non si sono mai conosciute in un tempo che non esiste. Di questa apparente magia resta solo uno spazio, geografico. Quindi raffigurabile, nelle mappe come nella fantasia.
E', dunque, un libro d' avventura perché, fino alla fine tutto può succedere.

FANNY VANDEGRIFT
Sono la moglie di Louis, Fanny. Sono più grande di lui di almeno dieci anni. Almeno. Ma non ci tengo a dire di più. Accrescerebbe il solco della differenza mentre la nostra vita insieme è stata un tentativo continuo di farci uguali. Se il tentativo sia riuscito questo non posso dirlo. Alla sua morte mi sono messa con un altro, venticinque anni più giovane di me. Poi io sono morta e col mio amante ci si è messa mia figlia Belle. Proprio non posso dirlo, allora, se sia stato un tentativo riuscito. Con Luis di certo ci siamo inseguiti a vicenda e inseguendoci ci siamo allontanati. Succede quando a coincidere sono solo le rotte geografiche.
Volevo anche aggiungere un’altra cosa. Sono scura di pelle. Mi chiamano la gipsy, la gitana. Non nel nome ma nella mia pelle è scritto, dunque, il mio destino. Nomade, fino alla fine.

LLOYD OSBOURNE
Chi furono i miei genitori non riesco a dirlo. Fanny VandeGrift era mia madre ma Sam Osbourne mi fu padre solo biologicamente, Louis che invece arrivò dopo il divorzio divenne madre e padre. Insieme. Lo amai. Fanny a questo punto era di troppo.

ROBERT LOUIS STEVENSON
“Mr. Stevenson sailed for the United States with the intention of remaining here for some time a long time, possibly. The voyage seemed to do him so much good, however, that on the way over he resolved to linger in America but a short while, and then take ship for Japan”.
Questo scrisse la stampa di me una volta sbarcato negli Stati Uniti. Ma del Giappone non era vero nulla. Solo che al New York Critic uscito in edicola il 17 settembre 1887 quello che premeva era che uno dei più famosi scrittori della letteratura inglese del tempo, cioè io, fosse sbarcato in terra americana. Il resto erano supposizioni. Che cosa poi New York potesse rappresentare per me questo nessuno poteva dirlo. Un’alchimia che avrebbe restituito un uomo nuovo alla sua vita, una porta d’accesso ad altro, ogni ipotesi era percorribile.
Tre quadri riassumono l’iconografia di questo enigma. E le storie che si trascinano dietro e i personaggi che li hanno toccati per crearli o solo per possederli. Tutti trasformati in frammenti di una narrazione che per il momento parte da me e che con me finisce. I passaggi intermedi se ci sono adesso hanno finalmente l’opportunità di resuscitare. Ogni singolo fatto si farà così paradigma e permetterà di avvicinarsi a piccole dosi a quell’altro di fatto, quello sullo sfondo, per il quale ancora non esistono nè parolè né descrizioni. Tutto conduce lì. Se fosse un giallo questi sarebbero indizi.

JOHN SINGER SARGENT
I miei quadri. I miei tre quadri. Ma oggi, a disposizione degli studiosi, ne restano solo due. E il terzo?
Premetto che capitava spesso che in epoca vittoriana nelle famiglie borghesi e aristocratiche si commissionassero ritratti. Stevenson apparteneva di diritto alla categoria e per di più era scrittore, ad un certo punto della sua vita anche molto famoso non solo in Scozia e in Inghilterra ma in tutto il mondo. Ritrarlo era un piacere. Ma anche un dovere. Non si poteva tralasciare un personaggio del genere. No.
Lo ritrassi, dunque, tre volte.
Fu facile incontrarsi. Inevitabile. La mia mappa geografica esattamente inversa alla sua. Nato a Firenze, ero figlio di americani. E non mi sono mai sposato. Primo indizio. Mi fu attribuita, sì, una breve storia d’amore negli anni ’80 con una certa Louise Burkhardt, una svizzeroamericana che viveva a Parigi, ma quello che si mormorava, in Francia come a Londra, nei caffè letterari come nelle accademie era altro. Che non si lasciava dire ma solo sussurrare. Io amavo gli uomini. E intanto continuavo a dipingere e a viaggiare. Altre forme di amore. Secondo indizio.
Mi ero formato a Parigi all’Ecole des Beaux-Arts dove avevo stretto amicizia con Monet masticando la lingua dell’impressionismo ma fu la Gran Bretagna a consacrare il mio talento trasformandomi in uno degli artisti più famosi del tempo. I ritratti erano la forma d’arte che preferivo. Circoscrivere l’intera vita di una persona in una forma, raggelarla in un istante, un atto creativo obbediente per molti all’istinto di onnipotenza. Per me, invece, la categoria dei pittori era solo una porzione di umanità al servizio di se stessa. E del suo desiderio che nel dipingere trovava il perfetto compimento.
Nel corso della mia carriera la pennellata leggera e asciutta ha dato corpo a circa cinquecento ritratti. Cinquecento persone consegnate all’arte, salvate dall’oblio. Per Robert Louis Stevenson ci fu un’eccezione. Tre ritratti invece di uno. Uno dietro l’altro, uno conseguenza dell’altro. E qui gli indizi finiscono per lasciare spazio di nuovo alla narrazione.

MARIA
Quella rapida successione di quadri oggi non è più percorribile. Gli studiosi d’arte che intendano esaminare la triade sono costretti a cominciare tutti, infatti, dal secondo ritratto. Mai dal primo. Del primo addirittura sono in molti a tacere. Le parole come tomba. Per nascondere. Per uccidere. Qualcosa o qualcuno che, in realtà, è già morto. Partii da lì.



"Robert Louis Stevenson and His Wife," di John Singer Sargent, olio su tela

Fino al 2004 di questa tela si diceva poco o nulla. Era considerata, questo sì, un’opera di valore, tanto più che si trattava di uno dei pochissimi quadri raffiguranti lo scrittore in compagnia della moglie Fanny. E si sapeva anche che apparteneva alla già ricca collezione della famiglia Whitney, appassionata di Impressionismo ma anche di pittura americana. Nel 2004, però, succede qualcosa. Su questo ritratto si riaccendono di nuovo i riflettori, come se fosse arrivato il momento di tornare a parlare. Il quadro va all’asta da Christhie’s e le quotazioni partono altissime, tra i $5,000,000 e i $7,000,000. Alla fine viene aggiudicato per $8,800,000, non un dollaro di più, non un dollaro di meno. Quel quadro, comunque, li valeva tutti. Ma non pensava questo Steve Wynn quando vinse quell’asta. No. Pensava solo alla parete gialla del salone centrale al primo piano della sua lussuosa villa di Las Vegas. E a come appendere quella tela e a cosa togliere per farle spazio. Era un uomo pratico Steve, i suoi sessantaquattroanni a qualcosa gli erano serviti, i suoi natali nel Connecticut pure. Pratico, fin da giovane. Non credeva né negli atomi, né nei quanti, solo nei prodotti ultimi delle molecole. Le mani, le sue mani erano le uniche depositarie a suo avviso della verità. I quadri li comprava per toccarli, lui.
Toccare, toccare, anche la sua vita che pure ogni volta sembrava sfuggirgli. Toccare per trattenerla, per non disperdersi. Per scongiurare la morte che era invisibile. Intraprese un lungo percorso Steve per arrivare ai suoi quadri. Si arruolò giovanissimo in una antica Confraternita di ricchi ebrei, fondata nel 1909, la Sigma Alpha Mu, una specie di società segreta dove giovani e brillanti universitari che sognavano una Terra Promessa si davano una mano l’un con l’altro, facendo leva sui valori più profondi dell’ebraismo. Ma da sola la Confraternita non bastò. Per fare i soldi, unica prova tangibile secondo lui dell’essere in vita e esserlo adesso, serviva un salto. Le gambe erano disposte, arcuate ma pronte, solo che non aveva valutato l’ampiezza della distanza. Il mestiere che si inventò, insomma, poteva avere delle incognite. Eppure sembrava la gallina dalle uova d’oro, il “casino resort developer” era qualcuno che portava la civiltà nel deserto. O pressappoco. Dove non esistevano casinò ci pensava Steve a costruirli, creandogli poi il mondo intorno. E fece i soldi. E i soldi si moltiplicarono. La prova del suo essere in vita, sì la prova.

STEVE WYNN
Non sono mai sicuro della felicità. E anche se esistesse realmente l’oscillazione che questo sentimento comporta scombussola tutto rendendomi continuamente infelice. Hanno rapito mia figlia in un modo così rocambolesco che Hollywod a lei si è ispirata per il film “Ocean’s eleven”. La nostra infelicità, stampata per sempre sulla pellicola. I soldi però continuano ad agitarsi, mi chiamano, sembrano impazziti in gabbia. E io rendo loro la libertà perduta. Comprando quadri su quadri. Con un impulso animale ho acquistato “Giudecca, La donna della Salute e San Giorgio” di Turner. Ho sborsato 35.8 milioni di dollari. Ma le tele le tengo gelosamente per me, al massimo le espongo a rotazione nei miei casinò. Solo per me.
Poi c’è stato il tradimento. L’arte non mi ha protetto. L’arte che avevo comprato dissanguandomi mi ha tolto l’immunità. Sono finito ammalato di retinitis pigmentosa. Gli occhi hanno cominciato a dilatare le forme fino a perdere il centro del loro equilibrio e tutto il resto del corpo gli è andato dietro. E’ in quel momento che ho compreso che l’ asse di rotazione della mia persona risiedeva nello sguardo, non più nel tatto e che l’intero mio essere dipendeva da questo. Che la prova della mia esistenza non si fondava sulle mani ma più in alto, stampata come era sul volto. E, invece, mi restavano adesso solo le mani e i quadri. Forse, non avrei avuto molto tempo ancora da vivere.
Riuscii, però, a godermi l’ultima visione del quadro di Sargent. Appeso in uno dei miei casinò. Il lotto numero 10 di Christie’s. Me lo ricordo come se fossi ieri. Sudavo, nonostante la leva dell’aria condizionata fosse schiacciata al massimo e bevessi succo tropicale, ma non servì a molto. Ricordo ogni dettaglio. E ora che a causa della malattia non riesco più a distinguere le forme impresse sulla tela, mi resta l’immagine di essa, ridisegnatasi da sola nella mia testa.

MARIA
A dominare la scena nella composizione pittorica è lo scrittore. E’ in piedi ma sembra quasi voler sfuggire alla centralità che Sargent gli ha imposto. Tutto il suo esile corpo è ritratto di lato. Come se Stevenson stesse scappando dal quadro e dalla responsabilità cui il pittore, suo malgrado, lo aveva obbligato. E se lo scrittore scappa per lo spettatore resta solo la porta, aperta, e Fanny, ridotta a poco più di un’ombra, inerte, senza forma, mollemente sdraiata su una poltrona. Il suo corpo è talmente lontano dalla scena che non ce la fa ad entrare tutto nei confini della tela. Fanny e Louis sono separati nella postura, nelle direzioni degli sguardi, nella materia che compone i loro corpi, nelle pennellate. Fanny e Louis sono separati da una porta che dà su uno sfondo scuro e simbolico. Una scala. Che per scendere devi salire. Guardi il quadro e non sai bene perché ma in bocca ti resta questo: tutto separa Fanny e Louis. Sargent, che aveva conosciuto lo scrittore in Francia quando la coppia ancora non si era incontrata, questo volle ritrarre. Al di là dei corpi e delle posture. Questo e non un bacio appassionato, né una composizione tradizionale con una figura dietro l’altra.

JOHN SINGER SARGENT
Il quadro in questione è un olio su tela. L’ho dipinto nel 1885, non avevo ancora compiuto trent’ anni. Confesso che avevo cominciato a metterci mano un po’ prima, agli inizi del 1882 ma non lo raccontai in giro. Avevo vergogna di qualcosa che non capivo bene neanch’io dove mi portasse. Sono sempre stato timido per quanto riguarda quello che non conosco. Come se l’ignoranza fosse una colpa e avessi bisogno di tutta la vita per espiarne il peccato. E’ per questo che proprio in quegli anni me ne andai via da Parigi e da Londra. Volli sperimentare la quiete dell’arte illudendomi che bastasse il verde della campagna a rappresentarla. Ma solo l’arte può rappresentare quello che non si può descrivere e nulla può rappresentare l’arte se non se stessa. Come poteva mostrarsi calma, allora, e tranquilla? Mi ero, quindi, illuso. Compresi il concetto nella sua interezza all’interno della colonia di artisti di Broadway, nell’English Cotswolds, dove trascorsi qualche tempo. Incontrare altri pittori come me mandò in crisi il mio talento. L’immagine che essi rimandavano, infatti, frantumava la mia ispirazione quotidiana e lacerava l’ immaginazione. Scoprii di essere come loro. La mia mano rimase a lungo in silenzio. Robert Louis Stevenson arrivò in quel momento esatto della mia vita. Lo dipinsi, cercando di capire se quella tela sarebbe stata per me l’ultima. Ancora adesso mi chiedo se il ritratto dello scrittore con sua moglie fu espressione del mio tormento o un tentativo, estremo e privo di freni inibitori, per sfuggirvi.
Withney, il primo collezionista che lo ebbe fra le mani, evidentemente si era innamorato del quadro proprio per questo, per le domande che lasciava aperte e per l’inquietudine che lo teneva vivo. Ma era una verità che non voleva condividere con nessuno. Fintanto che rimase in suo possesso, l’opera non fu quasi mai prestata, neanche per mostre temporanee. Rimase per anni un affare riservato, tra un collezionista appassionato e ricchissimo e tre fantasmi, a partire da me.

ROBERT LOUIS STEVENSON
Non ricordo come fu che incontrai Sargent. Molto probabilmente attraverso Henry James, il mio amico scrittore o Bob mio cugino che aveva studiato pittura a Parigi con lui. Proprio non ricordo e mi chiedo ancora il perché di quest’oblio. Tantopiù che ero rimasto profondamente colpito dalla sua persona, come se la sua postura di vita fosse un modello per la mia. Era in realtà lui il modello, io il pittore. In ogni caso di me disse che fui la più intensa creatura che avesse mai incontrato.
Erano quelli gli anni più critici della mia esistenza e al tempo i più decisivi. Avevo da tempo superato la trentina ma non potevo più definirmi un trentenne. E i quaranta erano ancora dall’altra parte del fiume. Potevo allungare la mano questo sì, ma essi restavano ancora imprendibili. Non ero, come si direbbe oggi, né carne né pesce. Fu per questa ragione, forse, che ebbi all’improvviso successo e per giunta nel campo che avevo eletto a mia passione, cioè la letteratura. Ma non potevo considerarmi fortunato. Perché la fortuna, per come la immaginavo io, era altro. Costruzione, espansione della fantasia, dilatazione del sé. E invece io ero rattrappito in una smorfia. Il successo che venne a questo doveva servire, a tirarmi fuori dal guscio. Ma non sapeva che il guscio era parte di me, la gobba invisibile nella quale nascondendomi ritrovavo la pace.
L’Isola del Tesoro era piaciuta, ovunque si ristampavano copie. Anche di notte mi pareva di sentire il tremulo scalpitio delle rotative e l’odore delle pagine su cui l’inchiostro prendeva forma, duplicando all’infinito quel pensiero che aveva originato il racconto. Dr Jeckyll e Mr Hyde sarebbero arrivati dopo, dopo il quadro di Sargent, intendo, ma Sargent fu abilissimo. Vide prima di me quel guizzo che avrebbe generato la trama del mio libro. Lo vide in quella parte dei miei occhi compresa tra la pupille e il bianco. Io, invece, ancora non me ne ero accorto. Ero troppo preso dai miei disturbi respiratori, un’eccellente distrazione per allontanarsi da sé, almeno per un pò e prendersi una vacanza interiore. Quel quadro, dunque, mi aveva colpito.

MARIA
Mi chiesi, se anche Fanny avesse lasciato un commento e puntualmente lo trovai. In una lettera alla suocera Maggie faceva, infatti, riferimento alla tela ma aveva tutta l’aria di ingoiare un boccone amaro piuttosto che rallegrarsi di un’opera d’arte.

FANNY VANDEGRIFT
E’ delizioso, ma nell’aspetto è folle, dando a noi più valore di quanto abbiamo. Chiunque può avere “il ritratto di un gentiluomo” ma nessuno ne ha mai avuto uno come questo. E’ come una scatola aperta piena di gioielli.

MARIA
Una scatola di gioielli, folle, però, nell’aspetto. Era forse questa una metafora della sua vita di coppia o semplicemente l’immagine che di essa voleva dare? La scatola di gioielli, dunque, come cassaforte di famiglia, con dentro stipati ben bene ogni sorta di segreti?
“Robert Louis Stevenson and his wife”, insomma, sembrava non essere più solo un quadro ma qualcosa di più. Una crepa nell’immagine pubblica di una coppia ormai conosciuta in tutto il mondo. Una dichiarazione di guerra. Di Stevenson contro la moglie. Che Stevenson però non aveva il coraggio di muovere e che Sargent mosse per lui.



« Robert Louis Stevenson », di John Singer Sargent, olio su tela

E’ il terzo quadro che conferma il sospetto. Stavolta Fanny è completamente scomparsa. Resta lo scrittore, lo sguardo frontale, quasi più rilassato e rinfrancato dalla solitudine dell’ insieme. La tela fuga ogni dubbio. Stevenson è solo.
Il quadro venne dipinto, tra la tarda primavera e l’ inizio dell’ estate del 1887, sempre da Sargent, come gli altri due, e sempre nella residenza di Skerryvore a Barnemouth, di proprietà della famiglia di Robert Louis. Ma stavolta su commissione. Di un ricchissimo banchiere di Boston, Charles Fairchild che voleva farne dono a sua moglie Elizabeth, grande ammiratrice dello scrittore, con qualche velleità artistica perchè poetessa e creatrice di un piccolo e vivace salotto letterario. Fairchild visitò gli Stevenson in corso d’opera, nel giugno del 1887, era così che un tempo funzionavano i lavori su commissione, si seguivano appassionatamente da vicino, e invitò la coppia per il settembre di quello stesso anno negli Stati Uniti, tra Manhattan e Newport nel Rhode Island, dove possedeva un meraviglioso cottage. Quel quadro e quell’invito, ma lo scrittore scozzese allora non poteva immaginarlo, avrebbero dato al destino di Robert Louis Stevenson una via d’uscita. O forse l’avrebbero chiusa per sempre.
La tela, invece, una volta autonoma e indipendente dal suo soggetto, se ne sarebbe andata per la sua strada. Nel 1910 la signora Fairchild, fu costretta a disfarsene in seguito ad un rovesciamento economico. Nel 1922 il terzo quadro di John Singer Sargent raffigurante Robert Louis Stevenson finì nella collezione di Anna Sinton e Charles Phelps Taft, ribattezzato “Taft’s Stevenson Portrait” e ancora oggi può essere ammirato nell’omonimo museo di Cincinnati. Arte e vita, almeno in questo caso, fecero finta di non conoscersi.

Uno, due, tre. Dai cataloghi di Christie’s si apprendeva che la cronologia dei quadri di Sargent con Robert Louis Stevenson come oggetto finiva qui. Già, ma mancava il numero uno all’appello, per il quale la casa d’aste non aveva previsto neanche un lotto. Il primo quadro di John Singer Sargent che ritraeva Stevenson sembrava sparito nel nulla. In quell’assenza ogni significato era a questo punto ipotizzabile.
Intanto lo scrittore, insieme a sua moglie Fanny, era appena sbarcato a New York. Pronto a dirigersi al Victoria Hotel.


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