domenica 22 maggio 2011

ZENITH 1

Zenith è un romanzo ambientato nella National Gallery di Washington nelle cui toilettes la protagonista rimane chiusa per sbaglio. Da qui un viaggio notturno in quello che è uno dei musei più ricchi e del mondo con i personaggi di alcune tele che sgattaiolano dai quadri per seguire una loro storia che si intreccia con quella della protagonista.



ZENITH
di Maria Zuppello

Figlio,
mia carne fatta,
fisso il tuo volto
e vengo ai sogni antichi.
Cammina nella palude
Pronto al guado,
giusto e forte
come è dovuto.
E’ tutto.
Lascia la mia mano
e vai


Versi di mia madre.
Scritti pensando a ciò che sarebbe venuto dopo.
Cioè io.
A lei, dunque, dedico questa prima pagina. E tutte quelle che seguono.

INTRODUZIONE N.1
Voi non potete saperlo ma vi assicuro: comincio a scrivere questo libro a penna. Una penna biro. Di quelle che tutti, con meno di un euro, possiamo trovare al bar o in tabaccheria o rubare al collega in ufficio. Sempre che si abbia un ufficio. Uno strumento a portata di mano, di tutte le mani. La penna l’ho strappata al disordine della mia borsetta, il blocco, invece, è un regalo di compleanno di un mio amico gravemente ammalato di miopia. E perfino astigmatico.
Ho scelto un punto preciso della mia casa da trasformare nel recinto sacro. Dove nasce, per mai più morire, il letto del fiume. E’ un punto duro. E’ un angolo. Strano destino quello degli angoli. Godono di misure che gli sono loro proprie e che solo a loro appartengono. Sposano il vuoto e spesso sono costretti a fissarlo per una vita intera. Ma sopravvivono. A molte catastrofi. Al quotidiano. Alle lotte, ai fratricidi, ai piccoli grandi delitti che si consumano in ogni città, ad ogni latitudine, dentro le case di tutti. Gli angoli delle case tengono in piedi il ring, delimitano il tempio, ricusano i colpi del tempo e dello spazio. Sono geometrie allo stato puro.
Non posso stare in piedi, però, anche se mi piacerebbe da impazzire scrivere un intero romanzo in piedi. Un modo originale di interpretare la precarietà? Non posso stare in piedi perché sento che questo lavoro mi impegnerà a lungo. Con continuità. Il posto fisso che ho sempre sognato!
Ma vorrei immaginarmi così. Come uno spaventapasseri. Che allontana le ombre cattive e protegge il raccolto, accrescendo la fecondità del campo.
E’ l’angolo sud-est della casa che diventerà il punto su cui ergerò il mio piedistallo di scrittrice in cerca di ispirazione. Punto di mera geometria. Una durissima onda di canne orientali compone la mia chaise longue. Dura ma comoda. Per tenere sempre vivi e appuntiti i miei pensieri. In perenne stato di allerta. I miei pensieri. Ogni tanto mi guardano da lontano. Ogni tanto mi sovrastano. Talvolta addirittura paiono dilegiarmi.
Sono in cerca di una storia. Ma la storia in realtà c’è già. Faccio finta di illudermi ma so che non è vero. Io intanto aspetto. L’attesa riempie sempre. Aspetto che la storia venga a me, che si lasci bramare, che si dipani davanti ai miei occhi e mi prenda per mano gettandomi nelle braccia dure dei miei personaggi.
Oggi è il 18 maggio 2002. E’ Domenica pomeriggio. E per scrivere un’introduzione è il giorno ideale. Questo giorno della settimana, per lo meno fino a poco prima del tramonto, non riesce ad uccidere il senso dell’attesa che di ogni buona introduzione è il signore incontrastato. Se dopo queste righe troverete una storia vorrà dire che la chaise longue ha compiuto il suo dovere.

INTRODUZIONE N.2
Devo riabituarmi agli oggetti. Succede ogni volta che faccio una doccia. Tutta quell’acqua…Non lava solo il mio corpo ma anche la percezione che ho di me nel mondo. Una nebbia improvvisa che si intreccia nella trasparenza delle gocce. In quel momento il mio mondo è tutto lì. Nei 60 cm x 30 del piatto doccia che è in realtà una vasca da bagno in miniatura. Una vasca da bagno per bambole. Un mondo stretto ma alto, così alto che non se ne scorgono i confini. E il primo oggetto con cui devo vedermela, uscita da lì, non è né il tappeto, né il phon. Piuttosto la penna a biro. E’ affidandomi a lei, e non ad un computer, che ho deciso di sputare questo libro perché vorrei che seguisse realisticamente i sentieri dei miei personaggi. Registrando, come in un elettroencefalogramma, ogni vibrazione, ogni bagliore. Perché mi corregga dalla retorica e mi tenga lontana dall’omologazione di una tastiera. Per tutto questo e per altro ancora.
Perché io possa vedere ogni pagina prendere corpo e scorgere, riflessa nella mia calligrafia, l’inquietudine narrativa dei miei pensieri. Che stanno per lasciarmi e diventare qualcos’altro. E’, forse, adesso arrivato il momento?

INTRODUZIONE 3
Salire le scale, 250 cal.
Alzare il braccio e portarlo alla credenza, 75 cal.
Trascinare la cassa d’acqua, dalla terrazza alla cucina, 162 cal.
Pulire lo specchio, sollevandosi sulla punta dei piedi, 86 cal.
Affacciarsi alla finestra, 35 cal.
Guardare il cielo, 6 cal.
Chiudere gli occhi, 1 cal., 1 cal. sola? Una per ogni palpebra.
Pensare. Nessuno è mai riuscito a misurare le calorie che si consumano quando si pensa. Forse, dipende dai pensieri.
Credo sia una fortuna perché possiamo essere salvati dalla perenne condizione di fantasmi. Noi non consumiamo calorie, come i fantasmi, ma solo quando pensiamo. E i fantasmi, loro, non pensano.
Le storie che andiamo a vivere si attaccano ai nostri pensieri, parassitandoli. Non siamo fantasmi. Siamo grappoli. Gli uni sopra gli altri. Gli uni sotto gli altri. Grappoli che si trascinano dietro storie.

INTRODUZIONE 4
Quanta scrittura va perduta. Potrebbe da sola rappresentare un combustibile alternativo per auto in cerca di nuovi carburanti. Tutta quella scrittura che rimane intrappolata negli arti della nostra mente. Che non trova nessun orifizio, nessuna fessura da cui uscire.
Dove si blocca la scrittura che va perduta? Tra gli occhi e la bocca? Tra gli occhi e le orecchie? Tra le orecchie e la bocca? Ha suono? Ha sapore la scrittura che va perduta? E’ un feto che gia conosce il suo abortivo destino.
E se invece della testa rimanesse intrappolata fra i piedi? Un sasso imprigionato dentro la pelle, così minuscolo da non ritrovare la via d’uscita.
E di cosa parlerebbe la scrittura che va perduta? Forse è grande letteratura. La più grande. Quella che nessuno potrà mai sfogliare o declamare. Sottratta per l’eternità al decadimento fisico e al deterioramento del pensiero.
La scrittura che va persa è quella che io vorrei raccogliere, in ogni strada e in ogni via del mondo.
Per sottrarre all’umanità l’amara melodia del rammarico.

INTRODUZIONE 5
Il posto più scontato è lo specchio. Il mio viso riflesso che bagnato dalla luce sembra rivelare una profondità che non ho. Ma lì non li scorgo e allora mi aggiro tra una stanza e l’altra della mia casa. Magari ci inciampo…
Tutto, però, tace e a rimbalzarmi addosso è solo il silenzio. Forse i personaggi che aspetto non sono mai esistiti? Può l’umana presunzione spingermi fino a questo punto?
Tre azioni, allora, in una: sbatto la porta, compro un biglietto aereo e me ne vado a Washington.
Forse può succedere qualcosa.






























Nessun commento:

Posta un commento