domenica 22 maggio 2011

ZENITH 2

Macchie. Ovunque. E tutte di spessore. Ammoniaca. Salsedine. Perfino il sale che non ha ombra. Croste di vita avevano finito con il contaminare tutta la città. E non c’era detersivo a redimerle. Né sforzo umano. Se la schiavitù avesse dovuto risorgere in questo scorcio di millennio almeno avrebbe avuto una nobile giustificazione. Loro, le macchie. Alcune erano bellissime. Chiedevano a gran voce una cornice perché chi passasse dedicasse loro uno sguardo, un pensiero, un segmento d’attenzione. Altre erano invise alla strada, al mondo. Perfino alla materia di cui rappresentavano l’atto di superbia più estremo. Le macchie erano un regalo, infatti, che la materia faceva a se stessa. La sua opera d’arte più ingombrante.
Noi e le macchie. Come rapportarsi?
Schivarle? Ossequiarle? Riconoscere loro quella continuità di cui sono in realtà l’ostinata negazione? Le macchie sono il nostro atto di dolore.
Mio Dio mi pento e mi dolgo con tutto il cuore dei miei peccati perché peccando ho meritato i tuoi castighi e molto più perché ho offeso te, infinitamente buono e degno di essere amato sopra ogni cosa. Sopra ogni cosa. Le macchie sono il nostro atto di superbia. Negazione costante della vita come flusso. Negazione di quel “sopra ogni cosa” che dovrebbe essere la nostra freccia di direzione. Le macchie sono fra le cose e sopravvivono anche alle cose quando esse non ci sono piu’. Ci si inciampa dentro come nelle pozzanghere .

All’interno della National Gallery sono inciampata in otto macchie. Era buio ma mi sono accorta della loro presenza. Perché il mio passo non era più lo stesso. E perché all’improvviso non mi sentii più sola. Da queste macchie è cominciata la storia che segue che è la somma della mia e delle storie delle otto macchie, una ad una. Spalmate per secoli su quadri appesi con 8 chiodi alle pareti del museo. Quando le ho incontrate quella notte erano solo macchie. Fuori da una tela. In cerca di una direzione. E di un corpo. Le storie sarebbero arrivate dopo. (...)

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